9 aprile 2013

DEMOCRAZIA ELETTRONICA, VINCERE LA NOIA


La prima volta che ho sentito parlare di democrazia elettronica fu a metà degli anni 1980, quando lavoravo all’Istituto regionale di ricerca della Lombardia, allora impegnato in particolare a capire, con il Progetto Milano, portata e possibili conseguenze delle nuove tecnologie della informazione. Ne fece cenno Giuliano Urbani, bocconiano con assidue frequentazioni statunitensi e poi figura di spicco nella galassia del centrodestra. Prudenti cenni di studio più che di lavoro, ma fondati su forti aspettative per gli sviluppi che ne sarebbero derivati (parola chiave, derivati, della finanza globale, nata dallo sfruttamento senza scrupoli delle opportunità informatiche, illimitate a fronte dei processi allora fortemente burocratizzati delle grandi organizzazioni, in tutti i campi).

In Italia qualcosa che ha a che fare con la democrazia elettronica ha oggi un successo elettorale che penalizza forze politiche sia vecchie che cosiddette nuove e paralizza le istituzioni. Siamo un laboratorio grazie al brodo di coltura di un malaffare e di un malcostume che da noi pervadono la sfera privata non meno di quella pubblica, in un crescendo tale da dimostrare che la cosiddetta seconda repubblica è solo lo stadio comatoso della cosiddetta prima, solo superficialmente sanata da Mani Pulite.

Ma il brodo di coltura serve se qualcuno ne fa uso. Nell’Italia dove tutti, ma proprio tutti, hanno il cellulare ha successo con bassissimo costo economico un movimento, diciamo così, di redenzione, che già nel nome (ispirato al linguaggio iconico elettronico: *****) pretende l’eccellenza, altra parola chiave della nostra epoca. Erano già disponibili le attrezzature e gli aderenti stessi, compresi quelli che ancora non sapevano di esserlo, ma appartenenti a una comunità virtuale cui è stato dato uno sogno civile (egualitario) e uno scopo politico (via i corrotti). Non è seduzione, è amore, anzi attrazione erotica basata su eccellenza, innovazione e bassi costi.

Anche Berlusconi ha messo a profitto politico investimenti realizzati inizialmente per fare soldi con le tv private e con l’audience costruita dal marketing. Anche la berlusconiana è una comunità di sognatori (davanti e dentro la tv), cui è stato dato uno scopo politico (ma non civile, trattandosi di sfuggire alla giustizia). Anche qui si tratta di amore, anzi di sesso pubblicamente praticato, non in diretta ma quasi.

Sono due comunità internamente coese per costumi e vaghe idee, ma incarnate da personaggi che danno spettacolo anche di sé, senza vergogna e remore, eredi elettronici della commedia dell’arte. Alle elezioni, queste comunità non votano, si autocelebrano applaudendo il capocomico.

Tutto questo pone veri e seri problemi ai partiti politici vecchio stile, quelli delle segreterie e degli apparati e degli iscritti e dei votanti che possono anche essere convinti, ma non si sentono comunità già da quando don Camillo e Peppone li avevano portati sul grande schermo. Se hanno sogni sono personali e la loro passione civile si esprime positivamente e prosaicamente nelle leggi. Ma le loro espressioni politiche – i partiti – sono costosi, anzi sempre più costosi da quando il malaffare e il malcostume sono divenuti episodi banali, tanto da varare leggi che premiano e incoraggiano la corruzione.

Di fronte al movimento ***** e a Berlusconi, che sfruttano a fini politici investimenti realizzati per altri scopi, ottenendone perciò enormi extraprofitti, i partiti che di sola politica vivono non hanno scelta: devono ridurre drasticamente i costi sia effettivi che percepiti (bisogna anche farlo sapere in modo efficace). E a questo scopo devono finalmente tornare alle idee e alle pratiche di democrazia interna che sono la loro fondamentale ragione d’essere e di successo, e sono invece state abbandonate nella errata visione di partito-azienda che non è la loro, ma dei loro antagonisti, avversari e puri e semplici nemici (della democrazia).

Siamo un paese dove il volontariato è una grande forza non solo sociale, ma stranamente sembra che possiamo farne a meno nel campo che ne è l’espressione più genuina: l’impegno politico, va da sé in democrazia. Per tagliare i costi, pertanto, è indifferibile riformare la legge elettorale nota come ‘porcata’ perché tale è: non si elegge nessuno, semplicemente si sottoscrivono azioni a scadenza (pagandole a carissimo prezzo su tutti i piani) che consentono a pochi stati maggiori di impadronirsi del potere pubblico e farne quello che vogliono, assumendo uno stuolo di parlamentari ben pagati. I partiti azienda portano al parlamento azienda, ormai lo vedono anche i ciechi politici se vogliono, e fanno morire la democrazia insieme ai partiti che non sono aziende, o lo sono solo un po’, o in maniera impropria con il finanziamento pubblico.

Abolita la ‘porcata’, per ridurre i costi bisogna innovare tutta una serie di strumenti che costano e non funzionano, come se non ci fosse stata la rivoluzione informatica: funzionari, giornali e sedi diventano volontari, web e network imperniati su alcuni centri strategici a presidio del territorio con pochi funzionari e poche sedi. Ciò non significa rinunciare agli incontri e ai rapporti interpersonali, che anzi in questa prospettiva vanno potenziati, ma per aprire le porte anche alla competizione politica interna, necessaria per avere consenso e una formazione politica altrimenti inesistente. E a questo fine basta farsi ospitare o affittare una sala quando serve. Ciò non significa neppure che sia facile, ma si sa che fare politica è difficile, salvo in un regime, sia pure miserevole come rischiamo di diventare.

 

Giuseppe Gario

 



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