9 aprile 2013

musica


 

IL MISTERO SCHIFF

Durante la settimana prima di Pasqua abbiamo ascoltato la terza serata dell’integrale delle Sonate di Beethoven che Andras Schiff sta eseguendo al Conservatorio per la Società del Quartetto: le prime due si sono svolte – e le abbiamo recensite – nel novembre dell’anno scorso e nel gennaio di quest’anno; in questa terza tornata abbiamo ascoltato prima le due Sonate “facili” dell’opera 49, poi – con inversione cronologica per ovvii motivi “teatrali” (e cioè per garantirsi gli applausi finali) – le opere 22 e 26, le due Sonate dell’opera 27 e l’opera 28.

In occasione del precedente concerto avevamo scritto (30 gennaio) che “c’è sempre qualche cosa di didascalico nelle esecuzioni di Schiff che ne mortifica l’ispirazione” e sempre, in occasione dei suoi concerti, abbiamo espresso da una parte grande ammirazione (i suoi programmi intelligenti e stimolanti, la precisione, la concentrazione, la lievità e l’omogeneità del suono), ma anche alcune perplessità (è tanto concentrato nel dettaglio da trascurare la sintesi, l’architettura complessiva e il senso ultimo dell’opera; spesso è algido, glaciale; i tempi veloci troppo veloci, quelli lenti troppo lenti, ecc.); insomma ci affascina ma non ci convince. Questa volta vorremmo tentare di andare più a fondo e spiegarne i motivi. Ci perdonino coloro che non ricordano a memoria queste musiche (ma basta avere un CD a portata di mano).

Dunque facciamo degli esempi, commentando due brani musicali fra i più noti. La Sonata n. 12 in la bemolle maggiore – l’opera 26, scritta a cavallo fra gli anni 1800 e 1801 – ha una struttura molto originale: il primo tempo è un Andante con variazioni, il secondo un breve Scherzo con Trio, poi – prima del morbido e poetico Allegro conclusivo – vi è inserita una “Marcia funebre sulla morte d’un Eroe” così titolata, in lingua italiana, dallo stesso Beethoven; è un pezzo straordinario, un pilastro nella storia della musica, non destinato a nessun particolare personaggio ma creato per “celebrare simbolicamente un eroe che non fu mai e che sempre sarà” (W. Von Lenz), di cui Massimo Mila ebbe a scrivere “indimenticabile la sublime modulazione il la bemolle della ventiseiesima battuta, unico momento concesso alle lacrime in questo maschio compianto funebre“. La Marcia è composta da due temi essenziali, fortemente in contrasto fra loro: il primo, in la bemolle minore, racconta la mestizia della processione che si snoda dietro al feretro dell’Eroe; ma, subito dopo quel moto di commozione segnalato da Mila, la processione improvvisamente si arresta e il secondo tema, in la bemolle maggiore, si presenta come un rullo di tamburi che, in crescendo da “piano” a “forte”, annuncia in “fortissimo” lo squillo delle trombe che celebrano la grandezza dell’Eroe. Poi la processione riprende il suo rassegnato incedere fino alla conclusione del tutto, in “pianissimo” (la tumulazione? la rassegnazione?). Cosa ci ha restituito Schiff di tutto ciò? Una perfetta, rarefatta e patinata esecuzione di un bel “pezzo” fatto di armoniosi accordi e di una sottesa dolce melodia. Nulla di più. Non c’erano processioni, né lacrime, tantomeno tamburi e trombe. Pura astrazione formale, zero sentimenti.

Secondo esempio, la “Sonata quasi una fantasia” (titolo originale in italiano) opera 27 n. 2 in do diesis minore che Beethoven dedicò alla diciassettenne contessina Giulietta Guicciardi della quale era masochisticamente innamorato (lui aveva trent’anni e vent’anni dopo, molto ingenuamente, confidava ancora a Schindler che “Lei mi amava moltissimo, molto di più di quanto avesse mai amato suo marito” ma tutti sapevano che non era affatto vero!). Il primo tempo della Sonata è quel mirabile “Adagio sostenuto” che ha consentito allo scellerato critico tedesco Ludwig Rellstab, anni dopo la morte dell’Autore, di intitolare la Sonata “Al chiaro di luna”. Ebbene Beethoven scrive sull’incipit della Sonata, sempre in italiano, che “Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino“, laddove il “senza sordino” sta per “con pedale”. Tutti i pianisti che conosciamo, per averli ascoltati dal vivo o in disco, usano sì il pedale per tutto l’Adagio e in ogni battuta, ma staccandolo (sollevandolo) brevemente fra una battuta e l’altra, in modo di non sovrapporre le strutture armoniche che cambiano in continuazione. Schiff (lo ha sempre fatto!) il pedale non lo stacca mai, creando così un’atmosfera sonora molto confusa e disarmonica che può anche determinare una qualche suggestione … onirica ma certo non giova alla comprensione del testo né alla purezza virginale che – non a caso – Beethoven gli affida. Dopo l’Allegretto con Trio, il nostro Maestro si scatena poi in un Presto non “agitato”, come prescrive l’Autore, ma addirittura forsennato, in cui non si percepiscono più le singole note, in cui si perde quel gioco raffinato fra il “piano” e lo “sforzato”, fra lo “staccato” e il “legato” (non indicato ma sottinteso), soprattutto togliendo all’ascoltatore la gioia di capire che cosa sta ascoltando. Naturalmente tutto eseguito con una tecnica e una precisione ineccepibile.

È vera gloria?

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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