20 marzo 2013

PERCHÉ RENZI È OLTRE QUESTO PD


“Se c’era Renzi”, è stato per qualche giorno il tormentone che ironizzava sulla “non vittoria” di Bersani. Un tormentone affettuosamente autoironico, da parte di un popolo Pd troppo abituato alle delusioni elettorali per non prenderla con filosofia, un atteggiamento confortato dal basso profilo tenuto dal sindaco di Firenze per tutta la campagna e nei primi giorni dopo il voto.

Anche i suoi più fieri critici interni, che durante le primarie lo avevano definito ora fascistoide, ora amico della finanza opaca, ne lodavano l’atteggiamento responsabile e disciplinato, cucendogli addosso il ruolo di “risorsa” del partito, a pieno titolo parte dei giochi di potere del Nazareno, tanto che i principali notisti politici davano conto di numerosi “riposizionamenti” in favore di Renzi, che pur non prendendo la parola aveva partecipato anche al rito della Direzione post-elettorale, attento a non strappare con le liturgie di un partito che pure lo ha visto a più riprese come un corpo estraneo.

Ma proprio a partire da quella circostanza, la distanza tra Renzi e il suo partito ha ricominciato a manifestarsi come alterità difficilmente riconducibile alla normale dialettica interna a una forza politica. Al di là delle battute (“terapia di gruppo”, la lapidaria espressione di Renzi riferita alla litania di interventi autoassolutori dei suoi compagni), è chiaro che la relazione tra il candidato sconfitto alle primarie da Bersani e il suo partito contiene un paradosso sinora irrisolto: se il sindaco ha costantemente confermato, con le parole e con i fatti, la sua lealtà al Partito Democratico, è altrettanto evidente una cosa. La sua forza è inversamente proporzionale alla vicinanza a una gerarchia che ha dimostrato di aver perso, con le elezioni, il contatto con una realtà che muta sotto i nostri occhi a una velocità evidentemente eccessiva per chi si è formato alla politica con i riti della prima repubblica, attraversando poi in posizioni di potere e corresponsabilità la stagione che sta per concludersi.

Non aver visto la valanga grillina, aver condotto la campagna elettorale più opaca mai vista, aver affrontato le elezioni caratterizzate dal più forte spostamento di voti che la storia recente ricordi con uno slogan, “L’Italia giusta”, che grondava arroganza verso i milioni di delusi del centrodestra così riconsegnati alla rinata leadership berlusconiana (quella in cui avevano creduto era un’Italia sbagliata? criminale? corrotta?), sono scelte che non possono essere derubricate a semplici errori di valutazione.

Esse hanno segnato sotto aspetti essenziali un vero e proprio rinnegare il progetto del Partito Democratico, nato con Veltroni per abbracciare con convinzione una vocazione maggioritaria, pacificare la politica italiana riportandola a un confronto pacato e sereno tra visioni alternative, ma tenute insieme dal comune obiettivo dell’interesse generale, bonificandola dalla tentazione di scorciatoie giustizialiste, tanto più inaccettabili in quanto collateralismi a vario livello continuano a vincolare e condizionare lo stesso Partito Democratico, come le vicende Penati, Monte dei Paschi di Siena, Antonveneta hanno eloquentemente illustrato negli ultimi anni.

Sotto questo profilo, la originaria posizione di Renzi sui costi della politica, ribadita nella richiesta di rinunciare sic et simpliciter ai rimborsi elettorali, rivolta a Bersani nel corso dell’intervista a Fazio del 9 marzo, non rappresenta una tardiva concessione allo tsunami grillino, ma è il nocciolo di una visione della politica diversa da quella dell’attuale gruppo dirigente Pd, una visione che contrappone il partito mare, aperto e permeabile al rapporto con la società, al partito lago, o partito ditta, dominato da una gerarchia di funzionari stipendiati e leali al vertice, che ha avuto plastica manifestazione nei respingimenti ai gazebo delle primarie degli “estranei”, trattati – in un esercizio di masochismo politico di cui non c’è memoria viva – come barbari colpevoli di voler contaminare la purezza dei militanti.

E d’altra parte, non aver saputo interpretare correttamente il 40% di consenso raccolto da Renzi alle primarie, in quelle condizioni, potendo contare solo su una rete di improvvisati comitati, doveva far suonare ben più di un campanello d’allarme. Si potrebbe continuare a lungo, contrapponendo proposte e visioni, ma è forse un esercizio sterile vista l’accelerazione degli eventi, del resto imposta dal serrato succedersi delle scadenze istituzionali e dell’avvitarsi della crisi economica, prima ancora che politica.

Bersani, con l’intero gruppo dirigente del Pd, si gioca nelle prossime settimane la propria sopravvivenza politica, percorrendo lo stretto sentiero che il magro risultato elettorale gli ha imposto, non senza segnare, con l’elezione dei presidenti delle Camere, una vittoria tattica, che però nasconde conseguenze di medio periodo ancora imperscrutabili. Renzi ha annunciato senza mezzi termini la sua sfida, così ponendo il segretario tra due fuochi, di là la galassia grillina, corteggiata forse oltre quanto la dignità del più antico partito oggi esistente consentirebbe, di qua un movimento che si sta finalmente organizzando e radicando sul territorio, caratterizzandosi per una inedita trasversalità, con militanti solo in parte provenienti dal Pd, in gran parte non iscritti ad alcuna formazione, che già oggi può contare su importanti realtà locali, come Officine Democratiche a Firenze (www.officinedemocratiche.it/), AdessoTorino (www.ateniesi.it), AdessoMilano (www.adessomilano.it).

Non è un mistero che Bersani desideri accelerare il ritorno alle urne, se passa troppo tempo non potrà bastargli l’arcigno presidio di Nico Stumpo ad allontanare indesiderate presenze dai gazebo.

 

Diego Corrado

 



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