20 marzo 2013

ITALIA: NAVIGARE NELL’ARCIPELAGO DELLA CRISI


Che il nostro Belpaese sia ormai in una crisi profonda è un fenomeno a tutti noto. Differentemente dalle crisi precedenti, degli ultimi trent’anni, la diffusione capillare della stretta economica e finanziaria, tocca tutti gli italiani, a ogni livello: dallo Stato, alle Banche, dalle principali istituzioni finanziarie alle imprese, dagli impiegati agli artigiani, dai professionisti ai commercianti.

La drammatica combinazione tra una crisi finanziaria a livello europeo e italiano e la crisi dell’economia reale, ovvero l’economia di tutti noi, sta creando un inesorabile succedersi di decine e centinaia di morti e feriti. Come in una guerra dei nostri giorni, senza cannoni, fucili o bombe, le condizioni economiche e finanziarie che si sono create negli ultimi dieci anni nel nostro Paese, ci espongono quotidianamente alla lotta per la sopravvivenza, senza regalarci un futuro, che diventa ogni giorno più opaco e ombroso. La mancanza di ricette asseverate, l’inesistenza di un processo di rinnovamento politico, il drammatico rallentamento dei processi di pagamenti, la mancanza di liquidità nel sistema bancario stanno rendendo sempre più precaria la nostra esistenza ai limiti della sussistenza.

Ma che cosa è realmente successo e come si può pensare di tracciare una strada per il futuro? L’introduzione dell’euro all’inizio del nuovo millennio ha innescato un processo di “americanizzazione” dell’economia europea e l’euro ha portato con sé, nel fenomeno moltiplicativo del valore della moneta, un virus congenito che fino ad allora aveva caratterizzato unicamente lo Stato e alcune sfere ristrette dell’alta finanza: il Debito.

Il cosiddetto effetto leva, ovvero la possibilità di accedere a gradi superiori della propria economia domestica e aziendale, attraverso l’utilizzo del debito, si è diffuso in Italia e in tutta Europa con una velocità e una capillarità senza precedenti. Ciò è tanto più vero nelle regioni del Nord – Lombardia e Veneto, in particolare – che nel Sud Italia, che ha sempre operato, secondo un modello di “autoconsumo”. La tensione verso le nuove chimere, si è affermata maggiormente nelle grandi città, Milano in particolare, rispetto ai piccoli centri abitati.

I principali attori e sostenitori dello sviluppo di un’economia basata sulla leva sono state, per definizione, le Banche e le Istituzioni Finanziarie che hanno finanziato negli ultimi dieci anni centinaia e migliaia di operazioni e di transazioni che si sono poi rivelate farraginose, non appena la crisi dell’economia reale ha dimostrato che la crescita non può essere un trend in continua ascesa e i cicli economici sono storicamente ondulatori e ripetitivi.

In Italia e in Europa, la crisi dell’economia reale, ovvero in particolare delle imprese, ha le sue ragioni profonde nell’impossibilità per le imprese di poter competere in un contesto internazionale a causa di una rigida struttura fiscale e normativa, di un costo del lavoro poco flessibile e di un valore della propria moneta troppo oneroso per i compratori esteri. In Italia le aziende che competono sui mercati esteri sono stimate essere circa il 25% del totale, mentre il restante 75% insiste sul mercato nazionale con una parte rilevante unicamente incentrata sul settore pubblico, primo cliente di migliaia di realtà aziendali nazionali.

Quando la crisi del debito e l’insostenibilità dei modelli di ripagamento dello stesso si è resa palese, sia a livello Statale, per i dettami europei, sia a livello Bancario, per le leggi di mercato, la miccia si è accesa in una miscela esplosiva. Lo Stato è rimasto senza liquidità per gli investimenti e per le imprese, le Banche, contemporaneamente, si sono ritirate dal loro core business rappresentato dalla concessione del credito, per concentrarsi nel difficile processo di riduzione progressiva della propria esposizione e del rischio di default ed è evidente come Stato e Istituzioni Bancarie e Finanziarie si siano focalizzate sull’obiettivo della propria sopravvivenza. Secondo il paradigma economico l’implosione dell’economia finanziaria porta con sé l’annientamento contemporaneo dell’economia reale. Non si salvano le imprese se non si salvano le Banche e se non si salva lo Stato. Questa tesi non coincide con la logica della salvezza delle istituzioni finanziarie in toto, ma sicuramente il sistema deve essere salvaguardato.

In tale processo di deleveraging (riduzione del livello di indebitamento), che dovrebbe forse garantire nel corso dei prossimi anni, la sostenibilità dell’economia statale e finanziaria di questo Paese, a farne le prime e brutali conseguenze sono state le imprese, i professionisti e i lavoratori a tutti i livelli e dimensioni.

La stretta creditizia ha messo in ginocchio decine di migliaia di aziende e, a nostro modo di vedere, siamo solo all’inizio dell’effetto complessivo. Il blocco della spesa pubblica, dell’anticipazione di fatture e commesse, la mancanza totale di liquidità del sistema e il crollo del flusso dei pagamenti porta alla progressiva chiusura di imprese distintive nel nostro Paese con la perdita di occupazione, know how, quote di mercato e imprenditoria.

E ciò avviene indistintamente sia se si opera sui mercati nazionali o internazionali sia a prescindere dalle dimensioni aziendali. L’unico elemento di variazione è la velocità con cui il fenomeno avviene.

In questo contesto, gli investitori stranieri, siano essi finanziari o industriali guardano con interesse i valori aziendali espressi dal nostro Paese perché ritengono vi possa essere un’interessante opportunità di acquisizione diffusa di asset tangibili e intangibili che l’imprenditoria nostrana è stata in grado di creare e sviluppare dal dopoguerra a oggi. A parte qualche rara eccezione, che al momento non fa il mercato anche se rilevante (un esempio per tutti, Marazzi), gli investitori stranieri si staranno probabilmente chiedendo a quali valori diventa davvero un’opportunità la logica del buy rispetto a quella del make.

La conseguenza più naturale è che gli stranieri si stanno preparando, con qualche carotaggio mirato, a portarci via la nostra essenza manifatturiera e di servizi rappresentata dalle nostre imprese con un probabile incremento di attività e di occupazione, ma in una logica globale e internazionale che spesso al lavoratore italiano non si addice del tutto. Ma tutto ciò quando potrà avvenire? Ed è forse l’unica nostra speranza per ripartire? Il quando non ci è dato sapere perché i meccanismi politici e finanziari dell’Italia e dell’Europa sono estremamente rallentati, quasi ad allungare l’agonia del paziente malato in vista di una ipotetica cura. Per quanto concerne la speranza, noi riteniamo che sia la strada corretta e l’unica possibile nell’attuale contesto di riferimento.

L’unica alternativa ipotizzabile sarebbe quella di dichiarare un default parziale sul monte debiti dello Stato che potrebbe liberare risorse funzionali alla ripartenza della nostra economia interna. Ma questo tema, come quello dell’uscita dall’Euro, sono dei tabù nel nostro Paese e nel nostro Continente. Almeno fino a oggi.

In questo ultimo anno, a partire dal Decreto Sviluppo, si è acceso un forte interesse per il fenomeno delle start up e per il venture capital, come spesso avviene nei momenti di crisi. Tale interesse ha portato alla creazione di alcune realtà interessanti e di rilievo sia dal lato degli investitori nel capitale di rischio che delle nuove imprese in fase di incubazione o di avvio.

Noi, dal nostro osservatorio, rimaniamo estremamente perplessi, per almeno tre ordini di considerazioni:

1) continuiamo a ritenere che non sia il settore dell’high tech e dei media, quello che caratterizza il nostro Paese e quello in cui possiamo esprimere i nostri valori. Il focus di un nuovo fenomeno di venture capital dovrebbe, a nostro avviso, riguardare i settori in cui l’Italia si è distinta negli ultimi cinquanta anni ovvero la manifattura o la tecnologia e l’engineering legata alla manifattura, la meccanica, le macchine industriali, l’alimentare, la moda, il design, il made in Italy solo per fare alcuni esempi. Riteniamo che sia velleitario provare a emulare il percorso di alcuni Paesi, come USA e Israele, le “Start Up Nations“, che hanno un vantaggio competitivo incolmabile nel settore dell’high tech che sarebbe difficile riuscire solamente a sfiorare.

2) in Italia riteniamo che manchi completamente la filiera finanziaria legata alle start up. Nei Paesi modello, a business angels e venture capital che intervengono nelle fasi seed e start up del business si affiancano, nei round successivi, operatori specializzati nell’expansion capital, nelle IPO, nei Reverse Merger e nei cosiddetti PIPE (Private Investors in Public Equity) che in Italia non sono presenti.

3) per finanziare un’impresa a qualsiasi livello dimensionale, non è sufficiente l’equity, ovvero il capitale, ma a un certo punto deve intervenire il sistema creditizio. Non essendo esso in grado di finanziare aziende economicamente solide e consolidate a livello dimensionale e di storia aziendale, non vediamo come le nostre start up possano non avere davanti a sé una strada in enorme salita.

Abbiamo recentemente appreso che in greco e in ebraico, le parole “crisi” e “opportunità” hanno la stessa radice. Noi ci speriamo dal profondo di noi stessi e ci auguriamo che, non solo per alcuni, ma per tutti gli italiani, sia davvero così.

 

Andrea Bardavid

 



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