20 marzo 2013

musica


DER FLIEGENDE HOLLAENDER

“Prima la musica” o “prima le parole”? Il dilemma che appassionò tanti nel mondo dell’opera, fino all’ultimo Richard Strauss, è ormai superato, la “moda” dei nostri tempi è “prima la regìa”. Ne abbiamo avuto una ulteriore e nefasta conferma con la nuova produzione scaligera del wagneriano Olandese Volante che – invece di sollevarsi nel “folle volo” al pari dei suoi classici archetipi – non si è alzato di un centimetro ed è rimasto inchiodato nel banale e prosaico stanzone di una specie di “Agenzia di viaggi marittimi” di fine ottocento, in una banale messa in scena, succuba di una regia sempre più di routine. Quelle regie che ignorano totalmente ciò che propone o suggerisce l’autore e se talvolta funziona è solo quando è firmata da grandissimi e geniali artisti: questa volta no, lo spettacolo è naufragato nel comico involontario!

Si è vissuta una sorta di esperienza schizofrenica, in cui ciò che si ascoltava era totalmente “dissociato” da ciò che si vedeva. A che scopo? Quale è stata l’idea alla base della regia? “Non l’avrei giammai creduto” che in quest’opera il “colonialismo” fosse un tema presente e significante; il regista voleva evidenziare un presunto carattere politico dell’opera? Ma che c’entra il colonialismo? Si sarà confuso con “l’Africana” di Giacomo Meyerbeer (si perdoni la battuta), ma è una pensata oltre che arbitraria e peregrina, colpevole di ignorare i ben più significativi e suggestivi temi offerti dall’Olandese.

L’equazione impostata e risolta dal regista Andreas Homoki (tedesco di origine ungherese, sovrintendente all’Opera di Zurigo) e dallo scenografo Wolfgang Gussmann per dar forma allo spettacolo è presumibile sia stata la seguente: “Olandese volante – vascello fantasma – navigazione – traffici marittimi – strumento della colonizzazione – sfruttamento coloniale – rivolta dei colonizzati – suicidio (con inedita schioppettata) della malvagia e maledetta società colonialista”!

Nel giovane Wagner, attivo aderente alla “Giovine Germania” – filiazione della mazziniana “Giovine Europa” – l’elemento politico è stato presente soprattutto nelle sue precedenti opere; con l’Olandese entra invece nell’Opera il Mito, come mai era successo prima: questa è la grande novità totalmente ignorata dal regista. Non è ancora il Wagner che conosceremo: l’opera ha un carattere un po’ discontinuo nell’intrecciarsi non sempre efficace di mito, sogno e realtà (a volte poco plausibili), ma i duetti, i concertati, le forme chiuse (la magnifica ballata di Senta!) non hanno nulla a che vedere con i modelli del “grand’opera” francese o dell’opera romantica di Von Weber. Qui, seppure non diffusi e non ancora elaborati come nelle opere mature, appaiono i motivi musicali che saranno i “mattoni” del suo costruire musica! Il primo, epico, enunciato subito in fortissimo dai corni, è proprio il tema dell’Olandese cui segue quello della Redenzione, altro fondamentale tema che sarà presente in quasi tutta la produzione wagneriana (“Redenzione al Redentore” sono le ultime parole della sua opera estrema).

Se proprio si vuole cercare un elemento politico nel giovane Wagner, questo è da riferirsi alla “Redenzione della Germania”, ideale suo e dei suoi amici fin dalle barricate di Dresda. Wagner ci sembra appartenere alla genìa dell’Olandese: quante volte in fuga, da Riga sul mercantile in balìa della tempesta (il germe dell’ispirazione), da una condanna a morte e, nei casi meno gravi, dai creditori e dai mariti gelosi! Una esistenza in gran parte errabonda e precaria conclusasi, come nel pacificato finale dell’Olandese (della revisione 1860, dopo il Tristano), nella città per eccellenza “sposa del mare”.

Nell’Olandese i personaggi sono “ontologicamente” immersi nell’atmosfera marina. Anzi, se dobbiamo dar retta a Quirino Principe, con la sua musica “Wagner è unico nel compiere una sorta di “transustanziazione”. Il mare, le tempeste, i fantasmi dei maledetti, i misteri e le angosce, non sono solo rappresentati musicalmente ma – pure in questa opera giovanile – assumono un carattere e una forza espressiva che li rendono esperienze tangibili. Una simile esperienza era possibile, alla Scala, solo chiudendo gli occhi: lo spazio si allargava all’infinito e riusciva ad abbracciare il mistero della musica.

Non abbiamo detto nulla dell’esecuzione musicale, ed è proprio ciò che vogliono ora i registi, che si parli soprattutto di loro, vere “primedonne” degli spettacoli lirici. Anche musicalmente non è stata una produzione memorabile: i ruoli secondari, già di loro natura i meno ispirati, hanno avuto interpreti incerti (soprattutto il Timoniere) o di espressività monotona e scialba (Erik), solo più che discreto Daland. Se la cava bene l’Olandese, il navigato Bryn Terfel, espressiva la Senta di Anja Kampe eccetto che negli acuti forzati e sgraziati.

Il direttore Hartmut Haenchen ha scelto la versione in due atti rimaneggiata da Wagner nel 1860, quindi nel pieno della maturità, dopo la straordinaria esperienza del Tristano la cui eco è ben presente nel nuovo finale. Una direzione complessivamente corretta, con alcune strane scelte come l’eccessiva lentezza in alcuni momenti dell’Ouverture e un ritmo forsennato, al limite della confusione, nel coro delle filatrici – scusate, delle dattilografe (!) – nel momento precedente il duetto tra Erik e Senta. Non abbiamo trovato invece traccia del clima epico e drammatico dei momenti topici, forse perché infastiditi e distratti dalle assurde trovate del regista! Bravi il coro, soprattutto le… dattilografe e anche i loro colleghi… d’ufficio! Già, e i marinai dov’erano?

Raccontano che, facendo le pulizie dietro al sipario per smontare lo spettacolo, si sia trovato un tale, accasciato, infilzato da una freccia (in effetti verso la fine del secondo atto, nel pieno della bagarre, compare fuggevolmente in palcoscenico un selvaggio quasi nudo, con la lancia: una vittima dei colonialisti trasformato in vendicatore …), ma, osservato bene dalla platea, non sembrava fosse dotato anche di arco e frecce. Mistero. Forse si è ripetuto quanto avvenne in un altro famoso teatro, una vendetta interna… si dice ne fosse stato vittima il direttore artistico. Ma, a quanto si sa, alla Scala il direttore artistico non esiste! E allora? (Ettore Zappa)

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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