4 maggio 2009

MITOLOGIA DEL DEGRADO


Dovendo trattare l’argomento del degrado con un occhio rivolto verso Milano, è facile scadere nella demagogia, magari accompagnata da un po’ di retorica e di moralismo ipocrita. Basta dire che le periferie sono degradate, che i parchi e i giardini pubblici sono pericolosi e mal frequentati, che le facciate dei palazzi sono deturpate da tag e graffiti dei writers, e così via. Digitando in un motore di ricerca le parole “degrado” e “Milano”, i primi dieci link rimandano a notizie di quotidiani on-line e blog con titoli di questo genere: “Degrado a Milano, dai navigli a piazza Duomo”, “Rapine, clandestini e teppisti: Niguarda ostaggio del degrado”, “Milano Santa Giulia: degrado e incuria. La denuncia degli abitanti”, “Via Ferrante Aporti a Milano: degrado, siringhe e rifiuti”, etc. Questo è il degrado percepito, soprattutto dai cittadini, e amplificato dai media.

Ma forse è meglio partire da una definizione del termine, per inquadrare un concetto altrimenti troppo generico e abusato.

Cos’è il degrado?

Partiamo dall’etimologia. Degrado deriva dal latino gradus (scalino, ma anche rango, dignità) con la particella de che indica un movimento dall’alto in basso. Il primo significato è quello di discesa, calo, ma nell’accezione più comune sta a significare una situazione problematica, di perdita di dignità. I dizionari specificano che degrado si usa principalmente in relazione a un ambiente, a un luogo. Il De Mauro specifica: ” rovina, decadimento, degradamento, degradazione, deterioramento; (di costumi, morale) abiezione, abbrutimento, imbarbarimento, immiserimento, scadimento”. Nel Sabatini Coletti troviamo un riferimento preciso: “situazione di abbandono, di incuria, deterioramento: d. delle campagne”.

Lo Zingarelli oltre all’etimo indica anche la data in cui è comparso il termine nella lingua italiana: “(1858) degradazione, deterioramento, spec. con riferimento a fattori sociali, urbanistici, ecologici”.

Questioni di percezione

A prescindere dalle definizioni, il concetto di degrado non è poi così scontato. Vediamo alcuni esempi considerando recenti fatti di cronaca e vicende ben note.

Nei giorni scorsi si è tanto parlato dell’ordinanza “anti-kebab”, per impedire gli assembramenti di fronte ai negozi che vendono questo alimento. Per alcuni, compresa l’amministrazione, questi negozi sono causa di degrado e disturbo, per altri sono un elemento di arricchimento culturale e di integrazione. Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni.

La riqualificazione di un’area dismessa è generalmente percepita come una trasformazione tesa a risolvere un problema, ma se chiediamo ad alcuni degli abitanti della zona Fiera cosa pensano di City Life, ci diranno che quel progetto non elimina il degrado, ma ne introduce in quantità proporzionale ai volumi costruiti.

Ora che si avvicina la bella stagione non viene voglia di uscire la sera per fare quattro passi, magari sorseggiando un cocktail (la Milano da bere è stata sostituita dalla Milano degli happy hour, ma la perizia dei barman è la medesima) o una birretta in compagna? E quale luogo migliore per questo delle alzaie dei navigli, uno dei pochi paesaggi pittoreschi e un po’ bohémien che offre il capoluogo lombardo? Vie d’acqua e persone a passeggio. Cene sui barconi e un cornetto appena sfornato sotto la serranda di un panettiere. Vitalità, attività commerciali aperte fino a tardi, economia che gira, melting pot, non sono forse modi per contrastare il degrado di luoghi che altrimenti soffrirebbero di abbandono? La risposta positiva è d’obbligo, peccato che i residenti non gradiscano tutto questo fermento. Anzi sostengono che la semina di bottiglie o bicchieri di plastica che trovano al mattino sia indice di degrado, così come il rumore fino a tarda ora. Punti di vista?

Il degrado delle periferie

Ai flussi migratori, che dal dopoguerra fino agli anni ’60 portano in città migliaia di nuovi abitanti da tutte le regioni d’Italia, generando il fenomeno delle “coree”, si risponde con un piano di edilizia economica e popolare (INA-Casa, IACP), a firma anche di importanti architetti (Lingeri, Bottoni, Figini, Pollin, Ponti, tra gli altri). Alla fine del periodo del boom economico (metà degli anni ’70) le industrie milanesi, in molti casi interne alla città, chiudono e diventano aree dismesse. E al degrado generato da queste aree ex industriali si aggiunge quello dei quartieri popolari, nati in ragione di quelle industrie. Un degrado urbano (le lunghe teorie di casermoni, fitti e monotonamente uguali), architettonico (la scarsa manutenzione del Comune e la poca cura degli abitanti nei confronti di edifici di per sé modesti) e sociale (disoccupazione, delinquenza, bande giovanili). Ovviamente la vicenda è più complessa, ma per comprenderla si rimanda alla molta letteratura sull’argomento.

Per comodità di ragionamento diamo per acquisito che in periferia questi fenomeni di degrado siano più consistenti che in altre parti della città (e ciò è decisamente opinabile), ma è altrettanto vero che proprio in questi luoghi sono in atto le trasformazioni più interessanti, finalizzate a contrastarli. Le riqualificazioni delle aree dismesse nella maggior parte dei casi introducono un miglioramento, rispetto allo status quo. Vi sono esempi interessanti. La sede del Politecnico in Bovisa ha modificato un quartiere “storicamente” problematico, non solo con l’insediamento fisico dell’università, ma generando una ricaduta positiva nei dintorni. La nuova Triennale, l’Istituto Mario Negri, gli studi di Telelombardia, sono la punta di un iceberg fatto di residenze universitarie, piccoli negozi, copisterie, bar e ristoranti che hanno iniettato nuova linfa in un tessuto moribondo.

Tutto ciò non è riuscito agli operatori della Bicocca e del PRU Rubattino, che hanno sostituito, in misura diversa, un degrado postindustriale con un degrado urbanistico, architettonico ed estetico. E non bastano un teatro o un centro commerciale per trasformare enclave neghittose in pezzi di città.

C’è anche chi ha provato la strada del lusso in periferia, ma con alterna fortuna. Se a Milano 2 l’idea ha funzionato, pur con tutti i limiti del caso (il ghetto per borghesi, la carenza di collegamenti con la città, ecc…), lo stesso non si può dire per Santa Giulia. Non è sufficiente proporre appartamenti a caro prezzo, selezionando così il target degli abitanti, per eliminare il degrado. Anzi. In attesa di conoscere i destini dell’area e di sapere se le residenze di Sir Norman Foster verranno mai edificate, ci limitiamo a registrare proprio lo stato di degrado ambientale che circonda i palazzi già realizzati e venduti.

Il degrado quotidiano

C’è un degrado più banale, che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi senza quasi vederlo, a causa dell’abitudine. La scarsa manutenzione delle strade, che trasforma Milano in una gigantesca pista da motocross dopo ogni pioggia. Il parcheggio selvaggio in doppia fila o sui marciapiedi, forse anche legittimato da una cattiva politica sulle infrastrutture e sui mezzi pubblici. Lo stridente contrasto di una Stazione Centrale, che si è rifatta il trucco, tra marmi, parapetti high-tech, e rampe mobili (tutto molto nuovo e molto bello, per carità, ma avete provato a prendere un treno? Dal piazzale ai binari il percorso ora è molto più lungo e tortuoso rispetto a prima), ma che fuori presenta lo stesso incompiuto scenario di varia umanità, criminalità spicciola e viabilità disordinata.

Ci si lamenta della prostituzione nelle strade, che genera degrado, ma si fa finta di non sapere che dove c’è offerta c’è anche domanda.

Via Paolo Sarpi è considerata la Chinatown meneghina e da anni il Comune e i pochi residenti indigeni si battono per trasferire altrove le attività dei commercianti cinesi. Sì, ma dove? In una zona periferica, ovviamente. Nell’ottica di contrastare il degrado trasferendolo in zone meno scomode, nascondendo la polvere sotto il tappeto. Guai a parlare di integrazione e di mixité.

Il degrado sottile

C’è infine un degrado meno ovvio, ma altrettanto significativo.

Fino a pochi anni fa si andava al cinema in centro. Corso Vittorio Emanuele era un unico enorme multisala all’aperto. Con bar e negozi sotto i portici. Poi la comparsa dei nuovi multisala in periferia o nell’hinterland ha gradualmente causato la chiusura delle storiche sale milanesi. Sostituite da negozi di abbigliamento in franchising, che di sera sono ovviamente chiusi. Ma ciò che potenzialmente introduce un peggioramento in centro, porta contemporaneamente a riqualificare e a rivitalizzare zone periferiche.

Elementi di degrado nel cuore della città non sono così infrequenti come uno potrebbe pensare. Fino al 1875 esisteva a ridosso del Duomo uno dei quartieri più malfamati di Milano, il Rebecchino, abbattuto durante uno dei tanti progetti per la sistemazione della piazza. Inoltre tracce dei bombardamenti dell’ultimo conflitto sono ancora presenti in via Brisa, via Torino e via Cusani.

Se ci spostiamo in una delle zone di trasformazione più citate negli ultimi 30 anni, l’area di Garibaldi-Repubblica, possiamo osservare, proprio sopra la stazione di Porta Garibaldi, il cavalcavia Eugenio Bussa, che in un vecchio piano urbanistico doveva essere l’asse di penetrazione in città da nord, proseguendo il percorso di viale Zara e che da sempre è una triste opera incompiuta, simbolo della velleità urbanistica milanese, ridotto a parcheggio degradato con due rampe monche.

Ad un paio di isolati di distanza, per fortuna non troviamo più l’Alba di Milano, opera dell’architetto londinese Ian Ritchie, collocata per un breve periodo davanti alla Stazione Centrale, rovinando la prospettiva sulla stazione da via Vittor Pisani. Inaugurata il 18 gennaio 2001 dal Sindaco Gabriele Albertini, è stata rimossa tra l’aprile e l’agosto 2002 e da allora giace in un periferico deposito comunale.

Per rimanere in zona segnalo che le torri che incorniciano l’inizio di via Turati, non sono perfettamente in asse con via Vittor Pisani e con la Stazione: degrado urbanistico-progettuale alla milanese.

Chiudiamo con una menzione alla Darsena, già degradata di suo e ora definitivamente scempiata da un cantiere fermo da anni e che sembra non aver nulla da invidiare alla Fabbrica del Duomo.

Se proprio dobbiamo trarre una conclusione, possiamo affermare che il concetto di degrado è più sfumato, contraddittorio e vario di quello che normalmente si pensa, e che Milano, ma penso che valga per qualunque altra città, ne esemplifica tutti gli aspetti salienti.

Pietro Cafiero



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti