6 marzo 2013

SINISTRA: CAPIRE NON PER SOPRAVVIVERE MA PER VINCERE


Una prima valutazione del risultato delle elezioni politiche e di quelle regionali per la Lombardia non può prescindere dal freddo esame dei dati. Il Centrodestra, rispetto alle elezioni politiche del 2008 ha perso per strada circa 7 milioni di voti, mentre il Centrosinistra ne ha persi circa 3,7 milioni che diventano 4,2 se si tiene conto del saldo negativo del confronto tra il voto a Rifondazione comunista e quello andato alla lista cappeggiata da Ingroia. La maggioranza dei voti in fuoriuscita è andata al Movimento 5 Stelle (circa 8,7 milioni), il resto si è disperso tra la Scelta Civica di Mario Monti e liste minori.

Se si aggiunge che il calo degli elettori rispetto alle elezioni politiche del 2008 è risultato di oltre 2,7 milioni, la competizione tra Centrodestra e Centrosinistra è risultata una gara tra gamberi, ovvero tra chi arretrava meno velocemente dell’avversario, tenendo conto che il punto iniziale di partenza era diverso in termini assoluti.

Entrambi gli schieramenti, per così dire, tradizionali presenti in Parlamento hanno scontato il fatto di non essere risultati credibili con le loro proposte a fronte di un vero e proprio tsunami che ha investito la rappresentanza politica. Il problema è, forse, ancor più grave per il Centrosinistra al Nord e in particolare in Lombardia. Qui, assieme alla più generale situazione di crisi, nonostante la caduta verticale di credibilità del Centrodestra, a seguito degli scandali che hanno travolto Giunta e Consiglieri di maggioranza, la Lega Nord e il presidente Formigoni in primis, il Centrosinistra ha perso politicamente e amministrativamente la grande occasione che gli si presentava davanti dopo oltre 17 anni.

Politicamente perché nelle elezioni per la Camera, a fronte del crollo della Lega e del PDL, il Centrosinistra perde oltre 330.000 voti rispetto alle elezioni del 2008, politicamente e amministrativamente perché i 550.000 voti in più conquistati da Umberto Ambrosoli e dal suo schieramento, rispetto al voto politico, non sono stati sufficienti a conquistare Palazzo Lombardia, nonostante ci fosse un bacino potenziale di altri 1,2 milioni di voti (i 400mila voti in più conquistati da Roberto Maroni rispetto alle politiche e i quasi 800mila voti conquistati dal M5S) dentro di cui pescare quei 150/200mila voti necessari per vincere la partita.

Le prime riflessioni autocritiche sono state per lo più di tipo organizzativo: non eravamo radicati nel contado, bisognava schierare il sindaco di Firenze, avevamo bisogno di più tempo, ecc. Tutte spiegazioni con qualche fondamento, ma riconducibili alla sola comunicazione elettorale. Nessuno, però, si è ancora posto il problema se l’offerta politica del Centrosinistra e, in particolare del PD, in quanto partito egemone nella coalizione, fosse adeguata alla domanda sociale maggioritaria che si manifesta nella più importante regione italiana.

La mia opinione è che, ancora una volta, la ‘questione settentrionale’, evidenziata dalle ricerche di Ilvo Diamanti e di Aldo Bonomi, sostenuta con articolate argomentazioni politiche da Massimo Cacciari e raccontata con chiarezza sul Corriere della Sera da Dario Di Vico, non abbia trovato posto nell’offerta politica del Centrosinistra, offrendo così praterie per le scorribande del Movimento di Beppe Grillo.

Del lavoro, per fare un esempio, si è molto parlato in termini di diritti, con lo scontato riferimento all’articolo 1 della Costituzione, ma quasi mai lo si è affrontato in termini di impresa, se non nelle riunioni di categoria o tra esperti. Dimenticando, un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti, che la stragrande maggioranza dei lavoratori delle piccole-medie imprese lombarde, la colonna portante del lavoro dipendente, proprio nei momenti più duri della crisi, si è identificata con le sorti delle proprie imprese e dei tantissimi e diffusi imprenditori e non con i sindacati di categoria. Con un cambio culturale stratosferico: il lavoro si difende rischiando.

Un’altra rilevante questione, che non è problema unicamente del PD, riguarda la partecipazione della cosiddetta ‘cittadinanza attiva’ nella quotidianità e non solo durante i periodi elettorali. Si tratta di una disponibilità che coinvolge un numero ampio e crescente di cittadini ma alla quale, anche nelle esperienze civico – politiche più innovative come quella di Milano, non si è saputo ancora dare risposte, contribuendo così alla mancata intercettazione del voto d’opinione in mobilità.

In estrema sintesi, è però l’offerta politica che il PD ha presentato per le elezioni politiche che si è rivelata il vero piombo nelle ali che ha impedito il successo di Umberto Ambrosoli e della sua proposta di Patto civico, rimasto recintato in quel cono d’ombra.

Con il M5S, in corso d’opera, saranno sicuramente possibili e auspicabili convergenze su singole questioni, dubito però che si possano costruire alleanze strategiche. Anche perché il M5S, oltre a non volere fare alleanze, al momento, è solo una lista di obiettivi senza una scala di priorità. Soprattutto per chi vuole fare politica, bisognerebbe mettere al primo posto la comprensione dei punti deboli delle risposte date dalla propria parte politica alle domande di cambiamento che il voto ha evidenziato. Io ripartirei da lì, cercando di rimettermi in sintonia con la maggioranza dei cittadini lombardi (se ci si propone di governare alle prossime elezioni). Il rapporto con il M5S, come l’intendenza napoleonica, eventualmente, “suivra”.

 

Sergio Vicario



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