6 marzo 2013

PER VINCERE IN REGIONE NON BASTA L’ARANCIONE


La campagna elettorale del centro-sinistra ha proposto un’ipotesi di risposta alle necessità oggettive e alle domande degli elettori lombardi. Le urne l’hanno falsificata. Le spiegazioni ricorrenti sono troppo note. La colpa è di chi non ti ha capito. O di chi è stato ingannato da preponderanti mezzi di persuasione. O di chi non è antropologicamente all’altezza del tuo messaggio, perché in preda a “spiriti animali”, a pulsioni viscerali. Qui si parte dal punto di vista opposto: che prima di far notare la pagliuzza nell’occhio dell’elettore sia opportuno togliere la trave dal proprio.

Che la Lombardia sia articolata in due o tre Lombardie è già stato oggetto di elaborazione sociologica: la città metropolitana, la bassa Padania, la fascia pedemontana. Ciascuna di queste aree sperimenta originali e distinte dinamiche socio-economiche e culturali. Ma le differenti domande e pulsioni che sgorgano da queste realtà diverse si possono tuttavia raccogliere sotto un solo logo: “la questione settentrionale”. Essa vuol dire molte cose: la prima, già denunciata tempo fa da Luca Ricolfi e molti altri, è che la ricchezza prodotta qui viene in gran parte rovesciata nelle casse dello Stato, a causa di una struttura centralistica del sistema fiscale, e non torna più indietro, se non in piccola parte amministrata direttamente e in termini qualitativamente apprezzabili, come nel caso della Sanità, dai lombardi stessi, al netto di episodi di corruzione.

Ma ciò che preoccupa e indigna i cittadini lombardi è che la parte maggiore delle tasse resta a Roma per finanziare una crescita tropicale dei costi della politica, della superfetazione amministrativa degli apparati statali, degli infiniti meandri di spesa statali e para-statali. La Lombardia produttiva finanzia attraverso le tasse uno Stato centrale, che alimenta l’espansione di occupazione pubblica parassitaria e di sussidi politici alle grandi imprese nonché, per fare solo un esempio, il mantenimento di un dirigente regionale ogni nove dipendenti in Sicilia, mentre in Lombardia è uno ogni ottanta! L’istituzione di una Provincia (supponiamo la Monza – Brianza, voluta da tutto l’arco politico!) non solo richiede di finanziare le sedi fisiche e i costi di funzionamento del Consiglio, della Giunta e degli Assessorati, ma genera l’indotto di Prefettura, di Questura, di Procura, di Guardia di Finanza, di Carabinieri, del Provveditorato ecc… ecc… Si attivano in tal modo degli automatismi di spesa “dovuta”, che nessuno più è in grado di bloccare, salvo, per esempio, abolire radicalmente tutte le Province, dimezzare le Regioni e, soprattutto, costruire un sistema fiscale alla Svizzera: tot ai Comuni, tot alle Regioni, tot allo Stato.

Mentre la spesa pubblica aumenta, migliaia di lavoratori lombardi, dalle valli alla pianura, sono lasciati a casa dalla chiusura di grandi e piccole aziende, strozzate dalle banche, dalla mancanza di investimenti, dai ritardi dei pagamenti della Pubblica amministrazione. La critica della politica e dello Stato centrale è profonda e diffusa nel corpo sociale: questo è il nocciolo duro della coscienza politica lombarda, oggi. Il popolo, quello del “contado” e quello delle valli pedemontane, è assai più informato e consapevole di quanto si creda a Milano. La Lega non è la causa di questa coscienza, le ha dato voce da tempo, ha proposto la trattenuta improbabile del 75% delle tasse. Ma è solo una delle risposte possibili. E se appare l’unica – ma, dopo Grillo, non più – è perché altre risposte e interpretazioni della realtà e della coscienza lombarda non sono state avanzate. Certo, non dal candidato Ambrosoli e neppure dalla coalizione che lo sosteneva: Pisapia, Pd, Camera del Lavoro di Milano, CGIL, Vendola, settori della Cisl. Non è, infatti, bastato rivendicare uno spirito di rottura – faremo “cieli nuovi e terra nuova”! –, dopo i nefasti da basso impero di Formigoni, per dare agli elettori il senso di una capacità di governo.

Nell’enciclopedia programmatica c’era tutto, eccetto l’essenziale. Come a dire: la sinistra non è arrivata all’altezza dei problemi che i lombardi sentono come reali, perché sono reali. Eppure PdL e Lega hanno perso più di 1 milione di voti, il centro-destra si è presentato diviso. Perdere nelle condizioni politiche più favorevoli: questa “la sconfitta perfetta”! Rifugiatosi nell’antileghismo di maniera – come se la secessione fosse e sia davvero molto di più che uno straccio rosso per far impazzire il toro di turno in campagna elettorale e infilzarlo – il candidato non ha visto la Lombardia reale.

A questa miopia ha contribuito indubbiamente l’arancionismo, plasticamente rappresentato sul palco del Dal Verme il 12 gennaio da Gherardo Colombo, Lella Costa, Vecchioni, Eco, Gad Lerner… L’arancionismo è la fase suprema e senile della sinistra radical-chic, rinserrata tra le mura spagnole, che eccita e diverte le platee con le facili battute antiberlusconiane e antileghiste, ma che non ha mai avuto il collegamento intellettuale con il tessuto economico – sociale e culturale lombardo. Un po’ di società civile, un po’ di trasparenza, un po’ di legalità e tanto doveva bastare. L’esito elettorale ha dimostrato tutta l’inconsistenza di questa piattaforma.

 

Giovanni Cominelli

 

 



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