6 marzo 2013

QUELLO CHE LE DONNE NON STUDIANO


L’imminente Festa della Donna ci rammenta che portare i tacchi in Italia è più difficile che nel resto dell’area euro. Ce lo dicono i dati sull’occupazione femminile: nel decennio 2001-2011, in Italia la percentuale di donne occupate è aumentata leggermente dal 41,1 al 46,5%, ma restando sempre ben al di sotto della media europea oscillante fra il 54,3 e il 58,5%. Peggio di noi fa solo la Grecia, dove nel 2011 era occupato solo il 45,1% delle donne (Fonte: Eurostat, Employment Statistics).

Tra le (poche) donne che lavorano, pochissime ricoprono ruoli dirigenziali: l’Italia è saldamente in mano a una classe dirigente di uomini over 50, che ricoprono quasi l’80% dei ruoli apicali (Fonte: Rapporto Eurispes 2012). Le (poche) donne che lavorano guadagnano meno degli uomini: il Gender Pay Gap – la differenza in percentuale tra il salario lordo mensile maschile e quello femminile – è pari al 4,5% nel settore pubblico e al 17,5% in quello privato; in questo caso, a onor del vero urge precisare che questo è un problema dell’intera l’area euro (Fonte: Eurostat, Gender Pay Gap).

Ma in Italia c’è anche un problema culturale, per cui si stigmatizzano le madri che vogliono tornare al lavoro in tempi brevi, a costo di lasciare il pargolo alla baby sitter o ai parenti. Anche gli studi economici, come quello di Algan e Cahuc del 2006, hanno confermato il ruolo della cultura nel determinare l’occupazione femminile. Ancora, in Italia c’è un numero insufficiente di asili nido pubblici. E quei pochi che ci sono, sono molto costosi, come documenta repubblica.it. E purtroppo i nidi aziendali stentano a decollare.

Tutto verissimo. Ma basta a spiegare tout court il gender gap nel mercato del lavoro? Secondo gli economisti Anelli e Peri della University of California, Davis, no, non basta. Il loro studio a quattro mani presentato nel 2012 alla XIV Conferenza Europea della Fondazione Rodolfo Debenedetti mostra che c’è anche una componente individuale, oltreché di contesto, all’origine del gender gap. La loro indagine parte da Milano. Precisamente, dai liceali diplomatisi all’ombra della Madonnina fra il 1985 e il 2005, seguendoli poi nelle università milanesi da loro frequentate e poi nella loro carriera, incrociando svariate fonti di dati.

La prima parte della ricerca mostra chiaramente che uno dei principali determinanti del gender gap è la facoltà universitaria scelta dopo il liceo. Scelta condizionata dal genere: i giovani uomini sono più propensi a scegliere le facoltà più quantitative come Economia e Ingegneria, mentre le donne amano più Lettere, Arte, Design e le Scienze Sociali. La scelta della facoltà non influenza solo i cinque anni passati tra i banchi, ma l’intera vita lavorativa: le facoltà scelte dai giovani uomini sono “migliori” in termini di sbocchi occupazionali e stipendio. Il modello econometrico sviluppato dagli economisti giunge ad attribuire un quarto o un terzo del gender gap alla facoltà scelta. Eppure le facoltà più quantitative non sono snobbate dal gentil sesso per una questione di abilità. Gli autori, dati alla mano, sfatano il vecchio pregiudizio delle donne poco abili a far di conto: al contrario, le (poche) iscritte alle facoltà più quantitative sono anche più brave dei maschi. Se è così, perché le giovani donne sono così restie a iscriversi?

La seconda parte della ricerca risponde a questa domanda chiamando in causa i valori preferiti dagli individui, riassunti dalla dicotomia competizione/egoismo; cooperazione/altruismo. La prima è approssimata dalla partecipazione a tornei e gare sportivi; la seconda dal coinvolgimento in attività di volontariato. Dai dati si evince che i giovani uomini sono più propensi alla competizione/egoismo e le giovani donne alle cooperazione/altruismo. Questa preferenza si ripercuote sulla scelta della facoltà universitaria e quindi sulle performance lavorative future. C’è dunque una componente psicologica in gioco a carico dell’individuo.

Siccome – Aristotele dixit – “l’uomo è un animale sociale”, potrebbero esserci dietro anche delle dinamiche di gruppo (peer effect) che spingono i giovani a iscriversi a una facoltà piuttosto che a un’altra. Gli economisti verificano anche questa ipotesi e scoprono che le donne sono più sensibili alle scelte delle loro compagne (same-gender peer effect) – forse proprio per la loro maggiore attenzione verso gli altri – mentre i giovani uomini tendono a curarsene meno e ad andarsene di più per la propria strada. Per chi volesse approfondire, il Report completo della Fondazione Rodolfo Debenedetti è disponibile qui.

Queste recenti scoperte su suolo milanese gettano una nuova luce sul problema della bassa occupazione femminile in Italia: non più ascrivibile (solamente) a quello che la classe dirigente – formata da uomini over 50 – non fanno. Ma anche a quello che le donne non studiano. Che finisce per rendere difficile la loro vita (lavorativa). Che volete? Siamo così, dolcemente complicate.

 

Valentina Magri

 



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