5 marzo 2013

musica


 

MUSICA CONTEMPORANEA

C’era un tempo in cui tutte le arti erano ospitate dentro le cattedrali: l’architettura, la pittura, la musica, la poesia, il teatro, eccetera. Poi ne sono uscite, e ognuna ha preso una propria strada…“.

Con questa immagine folgorante é iniziato l’intervento di Philippe Daverio alla affollatissima presentazione del bel libro di Ricciarda Belgiojoso “Note d’autore. A tu per tu con i compositori d’oggi” edito da Postmedia Books, nel quale sono raccolte 29 interviste ad altrettanti compositori contemporanei, una selezione dei molto più numerosi incontri che l’autrice ha curato per Radio Classica, ogni settimana, negli ultimi sette anni. Una presentazione svoltasi nella meravigliosa Villa Necchi – Campiglio del FAI, e un libro che hanno consentito prima a Daverio e poi a Quirino Principe di compiere un’analisi esplicita e senza sottintesi di un grande tabù culturale dei nostri giorni: il rapporto del pubblico colto (forse non “coltissimo”) con la musica contemporanea, la sua “incomprensibilità” o la fatica estrema di gustarne o almeno di coglierne il senso (se non da parte di pochissimi eletti e addetti ai lavori).

Lontani ormai dal tempo delle “cattedrali” – ha ragionato Daverio – alcune delle espressioni artistiche hanno mantenuto la loro leggibilità, la comunicazione con platee più o meno vaste, altre si sono rinchiuse in un rapporto con i “chierici”, con i rispettivi popoli degli eletti, perdendo il loro senso sociale. Fra queste la musica colta contemporanea. L’opera instancabile della Belgiojoso, aiuta a capire, usando un linguaggio meno esoterico e complesso – quello della parola piuttosto che quello musicale – il senso della ricerca dei suoni che questi autori portano avanti, per la maggior parte indifferenti all’incomprensione del pubblico e agli insuccessi. Una tribù, dice la Belgiojoso e confermano Daverio e Principe, molto diversa dalle avanguardie storiche che hanno sempre consapevolmente giocato un ruolo di innovazione “impegnata” (nel senso dell’engagement sartriano) imponendo la ricerca nell’ambito di battaglie e di sfide culturali volte a sostituire i vecchi idiomi con nuovi stili; mentre i chierici della neue musik appaiono rassegnati e paghi degli spazi minimali e rarefatti che le istituzioni culturali riservano loro.

Leggete questo disarmante e candido brano del dialogo tra la Belgiojoso ed Eliot Carter, uno dei più celebrati musicisti della contemporaneità, seguace e allievo di Schönberg, Berg e Webern: B.: “la tua musica è sempre stata considerata difficile” / C.: “è vero“. / B.: “ma in questi anni è diventata più chiara, meno complessa” / C.: “non lo faccio consapevolmente, scrivo semplicemente quello che mi piace“. Parole in cui sembra assente qualsiasi progetto, qualsiasi illusione o speranza di riallacciare i fili con chi non è già parte dell’élite. O meglio, come dichiara un altro compositore, Luca Francesconi, “… scrivo per la mia storia…”.

Come coniugare questa sorta di autismo con la nozione stessa di arte – che è sicuramente inscindibile dalla comunicazione – è un problema che rimane aperto anche dopo la piacevole serata trascorsa ascoltando le illuminanti dissertazioni dei due critici. Se non una chiave, almeno una parziale spiegazione viene dal considerare la differenza strutturale tra i media attraverso cui le diverse forme d’arte vengono veicolate. Ricorda ancora Daverio, riprendendo una riflessione di Pierre Boulez, che una delle ragioni della difficile comunicazione / comprensione sta nella differenza tra il modo in cui si può fruire un’opera di pittura e un brano musicale: la prima, esposta in un museo, ancorché a prima vista incomprensibile, può diventarlo con il muto colloquio che, in un tempo più o meno lungo, l’osservatore può instaurare con essa.

Inoltre l’osservatore sa che quell’opera, anche se per motivi a lui incomprensibili, ha un “valore” economico e quindi è portato a “sforzarsi” per apprezzarla. Per la musica, invece, il tempo della fruizione è limitato, fuggevole e quindi o si stabilisce un’immediata empatia o non c’è modo di recuperarla. Per di più il suo valore economico è, nella maggior parte dei casi, nullo e quindi non c’è da preoccuparsi: nella società di massa, ciò che il “mercato” non apprezza (cioè non ha prezzo) non ha valore. Può darsi che questo influisca sul problema, ma certamente non lo esaurisce, poiché siamo nel tempo della riproduzione meccanica della musica, oggi accessibile in ogni tempo e in ogni dove.

Infine un tema che il dibattito non ha toccato o ha toccato molto di sfuggita: il rapporto fra la musica contemporanea e il computer. Ne parlano molti, fra i musicisti intervistati, dicendone ovviamente meraviglie: il computer apre uno scenario infinito alla creazione di suoni, consente di superare i limiti degli strumenti fisici, apre alla creazione di timbri, colori, suoni, intervalli che l’esecuzione con strumenti manuali non consente. L’allargamento delle possibilità creative ed espressive grazie all’informatica è un tema generale, che riguarda anche la progettazione architettonica, le pratiche diagnostiche e mille altre attività. Ma mentre l’uso del computer in genere ha avvicinato gli artisti al pubblico, rendendo l’espressione artistica più comprensibile ed efficace, al limite banalizzandola, nella musica contemporanea l’elettronica ha portato a sperimentazioni ancora più esoteriche e sempre più lontane dal “comune sentire”.

Insomma il mistero, anche se ben indagato dal libro della Belgiojoso, rimane. Che i clerici ci perdonino. (Andrea Silipo)

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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