19 febbraio 2013

SVILUPPO URBANO IN TEMPO DI CRISI


È possibile che la crisi economica che stiamo attraversando sia riconducibile a una congiuntura recessiva e che – presto o tardi – potrà essere ricordata come una delle ricorrenti crisi alle quali il capitalismo mondiale ci ha abituati nella sua ormai plurisecolare storia. Non si può tuttavia escludere che tempi e modi di superamento della drammatica congiuntura domandino qualcosa di più e di diverso rispetto alla semplice retorica di una crescita da riattivare a tutti i costi, per invertire i segni negativi che oggi condizionano i principali indicatori economici. Ciò rimanda alla stessa discussione che accompagna in questi anni l’interpretazione della crisi e delle sue origini, se sia essa classificabile come una tradizionale fase recessiva o, diversamente, rappresenti una ‘grande contrazione’ che domanda strumenti e visioni differenti per il futuro.

Lasciamo per il momento agli specialisti un confronto tanto impervio su ragioni e possibilità di comprendere tali dinamiche economiche ormai irreversibilmente mondializzate, ma non mancano autorevoli osservatori che saggiamente ricordano le origini spaziali della crisi attuale, lo fa una volta ancora Salvatore Settis sulle pagine di Repubblica dell’8 febbraio, ricordando la crisi statunitense dei mutui subprime e lanciando un ennesimo allarme sui livelli inaccettabili di consumo ed erosione del suolo, risorsa non riproducibile tra quelle fondamentali per praticare una diversa relazione tra insediamenti umani e sviluppo civile ed economico.

È davvero impressionante accostare i dati riguardanti la potente contrazione dell’economia reale (il forte calo della produzione industriale e dei livelli occupazionali, innanzitutto) a quelli che paiono invece indicare un’espansione inarrestabile dell’urbanizzazione, riferibile sia agli effettivi fenomeni di crescita territoriale in corso, sia alle previsioni pianificate registrate nei tanti strumenti urbanistici prodotti in ordine sparso dalle amministrazioni locali.

Siamo consapevoli che considerare la crisi dalla prospettiva spaziale impone di valutare fenomeni estremamente sensibili alle scale e ai contesti regolativi che si sceglie di osservare, come non ci nascondiamo che i dati reali che segnano le dinamiche del settore edilizio e delle costruzioni registrano oggi livelli drammatici, ancor più sorprendenti se accostati ai processi continui di erosione del suolo.

Tuttavia, di fonte a quello che emerge come il più imponente ciclo storico di espansione urbana nella dimensione mondiale e di sistematica incorporazione di immense ricchezze economiche nella produzione di ambiente costruito (la “grande quantità di capitale eccedente” di cui ci parla David Harvey nel recente volume L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza) sembra necessario riflettere radicalmente sui paradigmi della crescita che hanno per lungo tempo dominato il rapporto tra ‘capitale’ e ‘natura’ come le forme e i modi di produzione dello spazio urbano, condizionando la stessa concezione operativa degli strumenti di governo e di intervento urbanistico.

Questo per dire che la necessità di ripensare credibilmente uno sviluppo economico e materiale che non forzi e violi sistematicamente i suoi limiti naturali non può che investire in pieno le stesse forme di produzione di nuovo valore, il loro significato sociale, ma anche la sfera delle tecniche e degli strumenti operativi che dobbiamo sapere pensare e mettere al lavoro in una diversa prospettiva.

Dunque l’urbanistica si confronta oggi con un fenomeno urbano dai caratteri inusitati e straordinariamente complessi, osservata in una prospettiva di lungo periodo la storia dell’urbanizzazione dell’Italia repubblicana appare scandita da fasi prevalenti e significative che rendono ragione dell’attuale condizione urbana. Nella fase odierna, semmai, si acuiscono alcuni problemi che hanno origini lontane e che non hanno trovato soluzioni definitive. Ciò rende più incerte le possibilità di trattamento di alcune istanze da parte dell’urbanistica e di risposta tecnicamente pertinente ed efficace con strumenti tradizionali pensati prevalentemente per il governo della crescita.

In un testo fondamentale, pietra miliare alle origini dell’urbanistica, la Teoria generale dell’urbanizzazione di Ildefonso Cerdà (1867), si trovano chiaramente espresse le premesse teoriche e gli orientamenti pratici di una disciplina che in quei lontani anni e negli anni successivi andrà costituendo il proprio statuto disciplinare in relazione ai problemi dell’inurbamento e del governo della crescita urbana. Se dunque guardiamo alle sue origini, forzando per un momento l’interpretazione, diventa quasi possibile sostenere che nella fase odierna l’urbanistica si presenta come una disciplina costitutivamente anticiclica, incapace di esprimere una presa realmente adeguata rispetto alla natura dei problemi e dei fenomeni in atto.

Il governo della mobilità urbana e territoriale, la capacità di risposta alle numerose domande sociali di uso e significazione degli spazi urbani da parte delle innumerevoli popolazioni urbane contemporanee, l’assunzione non solo retorica delle questioni ambientali legate alla gestione del suolo come risorsa scarsa e non riproducibile, la capacità di misurarsi con la ricomposizione a posteriori degli insediamenti urbani entro trame insediative e ambientali sostenibili costituiscono oggi alcuni degli aspetti di maggiore criticità rispetto ai quali si misura il divario fra i termini essenziali di una nuova questione urbana e la capacità di trattamento tecnico dei più rilevanti fenomeni con gli strumenti tradizionali dell’urbanistica.

Se oggi la domanda non riguarda soltanto dimensioni e luoghi della crescita urbana, assunte come invarianti di un fenomeno urbano che può contare su tempi, risorse e condizioni di sistema complessivamente certe rispetto alle quali le prospettive dello sviluppo urbano hanno assunto storicamente i toni della crescita (come sosteneva nel 1984 Bernardo Secchi ne Il racconto urbanistico), l’urbanistica si vede costretta a un ripensamento dei propri paradigmi disciplinari fondamentali e a una innovazione della strumentazione tecnica atta a operare un trattamento dei nuovi problemi in relazione a un mutato quadro di riferimento.

Il ritardo sembra accumularsi nel nostro paese rispetto a entrambe le questioni: ridefinizione dei paradigmi e innovazione delle tecniche.

Sul primo fronte alcune esperienze internazionali sembrano tracciare vie promettenti soprattutto rispetto agli aspetti ecologici e di ricomposizione insediativa, aspetti evidentemente non disgiungibili e invocanti prospettive di trattamento meno semplificanti rispetto a quelle sinora delineate.

Per quanto riguarda il secondo fronte, quello delle tecniche, tradizionalmente più inerte e resistente al cambiamento, le prospettive sono più incerte e confuse. Nel dimensionamento delle previsioni urbanistiche introdotte dai piani si dimostra particolarmente difficile operare uno spostamento dall’edificazione del nuovo al recupero dell’esistente (poche, note e non del tutto risolte rispetto agli esiti conseguenti sono le cosiddette esperienze di “piani a consumo di suolo zero”, in molti casi espressione soprattutto di un orientamento politico piuttosto che di soluzioni tecniche coerenti e convincenti rispetto al dispositivo di regolazione del suolo nel suo complesso), anche laddove le condizioni economiche e finanziarie di sistema indurrebbero a prudenza e gli aspetti territoriali suggerirebbero coraggio nell’approntamento di un vasto programma di manutenzione e recupero urbano.

Le difficoltà di bilancio nel difficile equilibrio fra reperimento di risorse (che non è possibile continuare a pensare provenienti dai soli oneri di urbanizzazione, ma che più convintamente devono essere ricercate entro una auto sostenibilità delle operazioni promosse) e attivazione di iniziative di sviluppo territoriale (che si auspicano più e meglio orientate nel senso della cura invece che nel senso della crescita) faticano a trovare una soluzione convincente e, soprattutto, effettivamente praticabile attraverso i meccanismi di perequazione e compensazione urbanistica spesso troppo complessi e inefficaci rispetto alla ri-attivazione di iniziativa imprenditoriale e sviluppo territoriale secondo logiche datate e inattuali.

La soluzione non è certamente semplice, né tanto meno a portata di mano o, per così dire, ‘di piano’. Una cosa, tuttavia, si afferma ormai con sufficiente chiarezza e perentorietà: le esperienze urbanistiche di questa fase e dei prossimi anni dovranno accettare di cimentarsi con le incertezze tecniche e politiche ed eventualmente anche con gli insuccessi che una fase di sperimentazione necessariamente ammette. La pazienza sarà forse la dote più utile e necessaria per quanti ambiranno a risultati significativi e non effimeri.

 

Matteo Bolocan Goldstein e Andrea Di Giovanni

 

 



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