12 febbraio 2013

musica


JOHN AXELROD

John Neal Axelrod è un direttore d’orchestra americano nato nel 1966 a Houston, nel Texas, che vive da molti anni in Europa, fra Francia e Austria, ama la cucina e il vino italiani e – dalla stagione scorsa – è diventato “Direttore principale” della milanesissima Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi nota a tutti come “laVerdi”.

Sentire un concerto diretto da lui è come fare una cura ricostituente dell’anima, riesce a trasmettere gioia di vivere, amore per la musica e per la bellezza, allegria, fiducia nel creato. Mostra molti meno anni di quelli che ha, non ha alcuno dei tratti tipici di molti direttori, come la spocchia, il sussiego, la considerazione di sé o quanto meno della missione che ritiene dover adempiere; il suo è l’atteggiamento del ragazzo che si diverte da morire “servendo” la musica, l’orchestra e il pubblico. Che meraviglia.

Nei giorni scorsi, all’Auditorium con “laVerdi”, ha eseguito due celebri Sinfonie che portano il numero 4, in si bemolle maggiore opera 60 di Beethoven e in mi minore opera 98 di Brahms. Due capolavori che potremmo dire posti all’inizio e alla fine del romanticismo tedesco nella sua straordinaria espressione sinfonica: prima di Beethoven la sinfonia era austriaca e classicheggiante, dopo Brahms il ciclone wagneriano ha messo in discussione la tonalità e con essa un intero mondo – bene o male che fosse – se ne è andato.

Dice Giacomo Manzoni in quel magnifico volume “Guida all’ascolto della musica sinfonica” (Feltrinelli, 1967) che “dopo i colori corruschi della Terza, la Quarta Sinfonia di Beethoven è un’oasi di pace e di serenità, un giuoco lieto di suoni e di immagini” e più avanti ancora che “è forse la più lieta e tersa Sinfonia che Beethoven abbia concepito, quella che più e meglio mette in luce la sua capacità di svolgere temi gioiosi, affermativi, che infondono nell’uomo una sconfinata gioia di vivere e di godere“. Dunque fatta apposta per un direttore come Axelrod che l’ha infatti eseguita con solarità e naturalezza, una vera festa dello spirito.

Assai diversa la quarta brahmsiana, l’ultima ch’egli abbia scritto e quella con cui si è chiusa l’epoca del sinfonismo romantico. Introdotta da uno dei temi più belli della storia della musica, che sempre Manzoni descrive come “una di quelle linee miracolose che bastano da sole a determinare tutta un’atmosfera e tutto un colorito espressivo“, questa Quarta è celebre soprattutto per il suo ultimo tempo che inopinatamente ha la forma della Ciaccona.

Tutti conoscono la Ciaccona grazie a quel capolavoro incredibile che Bach ha scritto a conclusione della Partita numero 2 per violino solo; e molti anche grazie alla straordinaria trascrizione per pianoforte che ne ha fatto Ferruccio Busoni e che Arturo Benedetti Michelangeli ha tante volte suonato e soprattutto inciso in un memorabile disco. Pochi sanno, invece, che Brahms ha adottato questa antica forma musicale (derivata da una danza di origine spagnola o latino-americana diffusissima in epoca barocca) al posto del classico Rondò o talvolta della Forma-Sonata (la grande invenzione di Haydn che si è sviluppata e consolidata con Mozart e Beethoven) usualmente utilizzati per i tempi finali delle Sinfonie.

L’intuizione di Brahms è fantastica, e nasce dal fatto che sia il Rondò che la Ciaccona si basano su un unico tema ostinatamente ripetuto ancorché ogni volta più o meno variato: mentre nel Rondò il tema è ripetuto quasi eguale a se stesso ma alternato a episodi da lui discendenti e insieme contrastanti, nella Ciaccona la ripetizione del tema è rigorosa e le sue continue variazioni possono portare anche molto lontano, renderlo irriconoscibile fino all’atteso e felice ritrovamento finale. Brahms usa nel finale della sua quarta sinfonia un tema elementare di otto note, rubato a una Cantata bachiana, lo fa esporre dai fiati e poi lo varia “con arte squisita in una serie di episodi che ne sfruttano le possibilità più impensate drammatizzandolo, rendendolo ora lirico ora mesto, e concludendo con un impeto quasi brutale e inesorabile” (sempre Manzoni).

È stato un concerto esemplare che ha riempito di gioia il fedele pubblico della Verdi, visibilmente commosso al momento degli applausi. Anche l’orchestra, che purtroppo ci è sembrata un po’ meno precisa del solito, sopratutto negli attacchi, sembra aver molto apprezzato il gesto ampio, descrittivo, inclusivo del suo direttore principale, applaudendolo a lungo e con convinzione.

Prima di questo concerto avevamo sentito al Conservatorio l’inossidabile Andràs Schiff con la consorte giapponese Yukoo Shiokawa: lui con il suo pianoforte personale Bösendorfer perennemente a seguito (con Andrea Bacchetti che gli voltava devotamente le pagine!), e lei con un violino un po’ afono certamente perfetto per la musica da camera ma molto meno per una grande sala da concerto. Il solito programma omnibus con opere di Bach, Beethoven, Debussy e Mozart, assortite senza alcuna logica “musicale”. Una serata sottotono, un po’ esangue – che si è appena rianimata con la Sonata in si bemolle maggiore K. 454 di Mozart – come sempre all’insegna della perfezione formale e della tecnica ineccepibile. Ma che noia!

 

Da non perdere

Giovedì 14, venerdì 15 e domenica 17, ancora diretta dall’ottimo Axelrod, laVerdi sarà la protagonista di un concerto “danzante” nel senso che saranno eseguite la “Danza della vendetta di Medea” di Barber, la “Danza dei sette veli” di Richard Strauss, la “Danza rituale del fuoco” (da El amor brujo) di De Falla e “Shérazade” di Rimsky-Korsakov.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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