5 febbraio 2013

AL VOTO. IL CUORE TIEPIDO DI CHI “SCEGLIE IL SUO NEMICO”


L’altra sera, commentando le notizie diffuse da un telegiornale notturno, una gentile signora che si presentava come “intellettuale” spiegava quanto nella campagna elettorale le apparissero assenti i problemi concreti della gente. Un giudizio ragionevole, ma comune, frequente, abusato, a proposito di infiniti altri casi di propaganda per il voto. Lo si è sempre osservato. Sono casi anche da Prima Repubblica, malgrado il Pci sia sempre stato uno straordinario produttore di programmi, raccolti in volumi che punto per punto indicavano la via, e allo stesso modo si sia esibita la Dc, se pure con minor diligenza e costanza: non era il caso di chiedere troppo a un partito che comandava e governava e sapeva benissimo camminare in equilibrio lungo il filo di interessi contrapposti.

I problemi della gente, problemi drammatici come ancora accade, problemi “concreti” come si sottolinea, citandoli in ordine, lavoro, casa, scuola, sanità, assistenza, eccetera eccetera, sono ben elencati nei programmi elettorali, che un tempo leggevano e discutevano solo i militanti più assidui nelle sezioni del Pci, adesso non so più chi, magari gli attivisti del Pd e un paio di professori al fianco di Oscar Giannino (gli stessi che il programma l’hanno scritto). Ho la sensazione però che il rapporto tra il voto e i cosiddetti “problemi concreti della gente” sia sempre più flebile.

Quanto può contare una campagna elettorale che fosse davvero vicina ai “problemi concreti della gente”, se poi, come ogni sondaggista informa, l’acquisto di Balotelli potrebbe far guadagnare un punto o due punti in percentuale al presidente del Milan (analizzate storicamente le campagne acquisti della società rossonera: registrerete sempre un’impennata di annunci e talvolta di fatti nei pressi delle campagne elettorali)? Quando Bunga bunga non è il titolo di una storia rosa, si fa per dire, ma il nome di una lista, regolarmente presentata con tanto di firme e regolarmente ammessa alla competizione? Quando l’ex presidente del Consiglio, nel Giorno della memoria, davanti ai carri che trasportavano centinaia di italiani a morire nei campi di sterminio nazisti rivendica le “buone cose” prodotte dal fascismo in Italia, senza per questo perdere un solo voto, anzi guadagnandone?

Quando il presidente del Consiglio in carica presenta come un disvalore il fatto che un partito sia in qualche modo l’erede di un altro partito fondato nel 1921, fondato da uno dei più grandi intellettuali del Novecento, morto in un carcere fascista, studiato ancora in tutto il mondo, e un intero elettorato non si precipita a confrontare non solo i momenti storici ma anche la biografia e la bibliografia di Antonio Gramsci con quelle del professore bocconiano, inventore di un partitino, che sarà fresco fresco, ma è già presidiato da personaggi che hanno un sapore d’antico se non di muffa (da Montezemolo a Bombassei)?

Sarebbe sufficiente il fallimento di un esecutivo che ci ha condotto nel baratro, l’insipienza di certi ministri, le bravate di altri, la petulanza di certe signore, perché il voto di chi quei “problemi concreti” vive spingesse all’inferno la destra berlusconiana. Ma non è così. Basterebbe la “realtà” di per sé a muovere voti da una parte piuttosto che da quell’altra. Ma non è così. Ci sono guasti profondi, antropologi, culturali, sociali, se basta annunciare che si cancellerà qualsiasi limite ai pagamenti in contanti o si restituirà l’Imu per mobilitare schiere di evasori.

A noi lombardi toccherà anche la pillola delle regionali. Potrebbe risultare amara, speriamo di no. Ambrosoli – mi permetto di giudicare – è bravo e serio e competente. Peccato che troppi altri partiti e partitini, da Albertini a Ingroia, malgrado le buone intenzioni predicate, possano alla fine risultare soltanto voti a perdere a vantaggio di Maroni. Bel rinnovamento. Cito sempre il titolo del primo romanzo apparso in Italia (e il più bello) di Mordechai Richler (diventato famosissimo per “La versione di Barney”). Il titolo è: “Scegli il tuo nemico” (A Choice of Enemies). Una raccomandazione che dovrebbe mandare a memoria qualsiasi elettore.

Come stiamo imparando, il voto regionale non accende i cuori e non solo perché lo sovrasta il voto nazionale. Una campagna elettorale che appare lontana dai “problemi della gente” (ma non è una novità) è, anche, lo specchio di istituzioni che appaiono lontane dai “problemi della gente” (non è una novità) e, paradossalmente si sente più lontano, burocratico, elefantiaco, imperscrutabile l’apparato regionale di quello nazionale, per quanto il primo abbia potere in uno dei settori più sensibili (in tutti i sensi, anche alla corruzione e alle tangenti): la sanità.

La responsabilità, per quanto riguarda noi lombardi, sarà pure di Formigoni, satrapo quasi ventennale in cima ai suoi grattacieli. Ma il difetto è prima di tutto nell’istituzione. Maroni aggiunge l’ideologizzazione: la rivendicazione (un inganno) del ritorno di tre quarti delle tasse in Lombardia è nel solco dei vecchi slogan, “Roma ladrona” o “lumbard tas”. Altra voce quella di Ambrosoli, che sa essere concreto smentendo quel giudizio sulla lontananza dai “problemi della gente”, ma paga l’opacità dell’istituzione.

Si può immaginare per il futuro la stessa partecipazione corale che sostenne l’elezione a sindaco di Milano di Giuliano Pisapia? Finora così non è stato. Potrebbe esserlo negli ultimi quindici giorni a disposizione. Ma non si può dimenticare quanto, rispetto alla Regione, altra cosa sia il Comune, davvero e sempre percepito come un interlocutore che si può avvicinare, sotto qualsiasi bandiera: se chiude la propria azienda si chiede al Comune di mediare, se arriva allo sfratto ci si rivolge al Comune, se si progetta una mostra si interpella il Comune. Malgrado le critiche, il Comune e i suoi assessori e i suoi funzionari restano un riferimento spesso rassicurante o almeno non sempre ostile, dalla “parte del cittadino” (persino l’immigrato la pensa così). Con il sindaco e con i suoi assessori si può parlare.

Anche per questo la campagna elettorale che condusse alla vittoria di Giuliano Pisapia fu diversa, più calorosa, più partecipata, più vivace, non solo perché si intravide la possibilità di cacciare l’esangue, inconcludente, incapace Moratti, non solo per la sensibilità e l’intelligenza di Giuliano, che seppe legare cultura e competenza (direi un’alta professionalità) al calore del dialogo, dell’incontro nei quartieri, esprimendo sempre responsabilità e serietà (consiglio a tutti e in particolare agli amministratori un altro libro, “Metropolis” di Jerome Charyn, un viaggio dentro New York alle spalle del sindaco Ed Koch, morto giusto qualche giorno fa).

Vorrei segnalare un altro aspetto. Come cioè la crisi dei grandi partiti, le “due chiese”, non abbia ucciso, del tutto, la politica, l’abbia cambiata affidandone alcune voci (quelle che meglio interpretano i “problemi concreti della gente”) a minoranze attive, minoranze virtuose, che lavorano nei quartieri, nelle periferie, suggerendo soluzioni, confrontando le proprie con quelle che l’amministrazione pubblica, per dovere, può indicare, oppure a minoranze rivendicative, costruite attorno a un “no”.

È comunque un riavvicinamento che anima la presenza, anche dei giovani, che hanno a cuore e nella mente i grandi ideali (giustizia, libertà, eguaglianza), ma che non s’affidano al “sol dell’avvenire” e hanno imparato invece a cercare una risposta caso per caso, nella difesa di un centro sociale, nella rivendicazione di un edificio scolastico agibile, anche nella garanzia di un alloggio per i più bisognosi o nel diritto all’istruzione dei bimbi rom o nella solidarietà dei lavoratori in lotta, una risposta che può giungere solo da un “governo” che ti sta di fronte, in una casa dove puoi entrare. Sono un “fare concreto” o un “protestare concreto”, estranei alla politica televisiva, spesso frustrati dalla sordità della politica, talvolta (penso a Milano e al suo sindaco) colti come risorsa per la città (e per il paese). Anche in una campagna elettorale.

 

Oreste Pivetta

 



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