6 febbraio 2013

libri – IL BALLO AL KREMLINO


 

IL BALLO AL KREMLINO

CURZIO MALAPARTE

Adelphi 2012

pp. 422, euro 22

 

Pericoloso e politicamente scorretto nel dopoguerra il “Il ballo al Kremlino” di Curzio Erich Suckert, alias Curzio Malaparte, “nom de plume” assunto nel ’25. Questo spiega il tortuoso iter redazionale del romanzo e la sua pubblicazione postuma, solo nel ’71, con Vallecchi e ora con Adelphi, grazie alla certosina cura filologica di Raffaella Rotondi, con le sue 100 pagine di note al testo. Molti lumi sulle vicende dei vari dattiloscritti incompiuti che componevano il romanzo, vengono dal Fondo Malaparte, custodito nella milanese Biblioteca di via Senato e dai documenti reperiti nei 12 volumi della sorella di Malaparte.

Nato dalla fucina della “Pelle” (libro messo all’Indice) tra il 1946 e il 1949, “Il Ballo” chiude idealmente, con “Kaput” del 1946, la trilogia dei romanzi che parlano, in ordine, dei rapporti tra l’Europa e gli Alleati, tra l’Europa e il nazismo, e tra l’Europa e il nascente stalinismo in Russia.

Ma cosa vi era di così stravolgente nel romanzo, che lo stesso Gallimard non volle pubblicare, nonostante un contratto sottoscritto nel 1949?

Lo chiarisce l’incipit del libro: “In questo romanzo, che è un fedele ritratto della nobiltà marxista dell’URSS, della “haute societé” comunista di Mosca – negli anni ’29, ’30 del ‘900 – tutto è vero… un romanzo in senso proustiano… in quanto a quel senso acuto del désintéressement.” Ove protagonisti non sono i singoli personaggi ma l’intero corpo sociale. Il romanzo è dunque uno scenario impietoso della decadenza dell’URSS .”… quel che è sicuro è che …fra tutti gli Alleati i più corrotti, i più sensibili ai “pots de vin”, ai compromessi, alle corruzioni, al denaro, sono i sovietici. Né si dica che questa corruzione sovietica è dovuta all’ambiente non comunista, all’ambiente borghese in cui questi sovietici sono stati trasportati all’improvviso”.

Malaparte individua profeticamente nella decadenza della società sovietica già dai suoi albori, le ragioni del tramonto dell’Europa e, in antitesi alla concezione liberale, vede nel bolscevismo un fenomeno europeo e occidentale, non già un enigma sovietico.

Potente metafora di quella decadenza è la sacra mummia di Lenin nella piazza Rossa di Mosca, che “fragile, morbida si sgretola, umida, guasta” e richiede perciò continui interventi per “riparare il guscio del prezioso crostaceo”.

Ma come poteva un giornalista, scrittore italiano, conoscere così a fondo la realtà sovietica?

Già nel ’20, Malaparte ventiduenne partecipò come giornalista all’invasione sovietica della Polonia. Nel ’29 poi soggiornò a Mosca come Delegato di Legazione per il Ministero degli esteri italiano e poté allora frequentare la nobiltà marxista, e conoscerne gli stili di vita nelle feste, nelle ambasciate, a teatro o negli esclusivi club del tennis. Una società che tentava di imitare i modi della vecchia sconfitta nobiltà zarista, senza riuscirci. Quella società che Stalin scrutava con occhio scintillante dal fondo di un palco di proscenio, quando ammirava la sua amata prima ballerina del Bolscioi, la Semionova. Tornerà l’autore a Mosca, via Cina nel ’54, ormai malato ai polmoni.

Ritratti espressionisti indimenticabili in questo romanzo, scritti con lo stesso stile di un quadro di Grosz, come la melanconia di Majakovskij, che lo porterà al suicidio. Toccante la visita dell’autore alle 6 di mattina alla stanza disadorna del poeta, qualche cartolina di grattacieli di New York appese al muro, un albero smunto fuori dalla finestra.

Fiero il ritratto della frivola Lunaciarskaia, l’attrice che intrepida esibiva in privato gli abiti firmati

di Schiapparelli, di proprietà del Teatro, e mostrava in pubblico i suoi vari amanti, decretando la rovina del marito, Commissario del Popolo per l’Istruzione pubblica e le Belle arti, per il quale Malaparte nutriva grande simpatia, il solo che “non giudicasse borghesi e controrivoluzionari gli scrittori e gli artisti”. Allucinata poi la descrizione di Florinsky, Capo del Protocollo del Commissariato del Popolo per gli affari esteri, che osava girare per le strade di Mosca con il suo landau nero tarlato, lui tutto incipriato, con gli occhi bistrati.

Toccante l’immaginario racconto del vecchio principe Lwow, che cammina con una poltrona dorata sulla testa, per portarla nel viale dell’Arbat, dove si riuniva l’esangue nobiltà russa sopravvissuta, per vendere i suoi poveri tesori.

L’epurazione staliniana, in quel tempo del primo Piano quinquennale è in agguato, e mieterà tante vittime tra i nostri protagonisti, poiché Stalin “non ama certi atteggiamenti mondani della nobiltà sovietica, né gli scandali femminili. Stalin in fondo è un puritano”

Chiaroveggente si definiva Malaparte, spirito libero, poliglotta, indomito, fascista della prima ora, poi deluso dal fascismo, incapace di una vera rivoluzione sociale. Per le sue critiche fu sollevato dalla direzione della Stampa e subì il confino a Lipari nel ’32. Affascinato anche dal comunismo, (lasciò la sua villa di Capri alla Cina), cattolico dell’ultima ora, ammirato dallo stesso Gobetti, Montale, Kundera, Malaparte è un genio indiscusso della penna, con i suoi 13 romanzi, 2 raccolte di poesie, 2 pièces teatrali, un film, 14 saggi.

Merito indiscusso dell’Adelphi, oggi, il proporre una esaustiva edizione critica delle sue opere.

 

 

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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