5 febbraio 2013

musica


 

CRITICA MUSICALE

Molti sono rimasti letteralmente basiti leggendo, nella pagina degli Spettacoli del Corriere della Sera del 30 gennaio scorso, una colonnina dedicata all’ultimo concerto della Filarmonica della Scala nella quale si dicevano alcune cose sorprendenti come: 1) che Daniel Harding “ha, a differenza di Claudio Abbado, una precisa tecnica direttoriale onde è un vero direttore, magari un cattivo direttore, ma un vero direttore“; 2) che non dirige a memoria ma “signorilmente (sic!) sempre con la partitura sul leggio“; 3) che il direttore esitava “tra un’esecuzione giusta valori musicali (sic!) e una con il cosiddetto suono d’epoca dei cosiddetti filologi musicali“; 4) che sempre lui “ha dato un’esecuzione così morbida da far pensare che voglia sostenere la tesi, nulla in radice (sic!), di un Wagner omosessuale“.

Avete capito bene, proprio così, le virgolette sono rigorosissime e per carità di patria non le commentiamo; ci limitiamo a sottolineare che la colonnina era firmata dallo “storico” critico musicale del giornale.

Ma siccome viviamo in una gabbia di matti, ha sorpreso ancora di più sapere (Corsera del 2 febbraio) che il sovrintendente Lissner – quello stesso che all’inizio della sua presenza alla Scala avevamo tanto apprezzato e di cui poco a poco ci siamo disamorati – un anno fa aveva chiesto a De Bortoli la testa di Isotta, e che dopo questo ultimo articolo lo ha addirittura dichiarato “sgradito” tanto da non volerlo più in teatro! E che il direttore del giornale, legittimamente e giustamente difendendo il suo collaboratore da tanta arroganza, è arrivato a definirlo “straordinario, intelligente e imprevedibile critico che conosce la musica meglio dei suoi detrattori“.

Non bastava. Replica il Lissner sul Corriere del giorno dopo rivelando – dopo aver ricordato le peggiori malefatte di Isotta fra cui insulti vari, attacchi personali, pubblici schiaffeggiamenti, ecc. – che i biglietti omaggio erano dal suddetto “pretesi a domicilio” e ricordando che la funzione del critico dovrebbe essere quella di “pensare, riflettere, porsi fra l’opera d’arte e il pubblico per far capire” e non usare i propri scritti “come clave“. Ma anche De Bortoli non scherza tanto che nella sua arguta replica confessa che “gli eccessi del mio critico mi sono ben noti, purtroppo, e me ne scuso“.

Mah…! Vien da chiedersi fino a quando De Bortoli consentirà a Isotta di abusare della sua posizione di potere e quando avremo finalmente un nuovo e autorevole sovrintendente del Teatro alla Scala.

Di tutt’altra pasta, per fortuna, sono gli interventi critici che Enzo Beacco sviluppa nei bei programmi di sala che accompagnano i concerti sinfonici dell’Auditorium (densi e succosi come quelli che per anni illustrarono i concerti di musica da camera della Società del Quartetto e che sono tuttora rimpianti da quegli abbonati). L’ultimo è interamente dedicato ad Antonìn Dvořák di cui si eseguivano la scorsa settimana quattro opere, scelte non fra quelle più note e tuttavia una più gradevole dell’altra: l’ouverture drammatica “Husitskà”, la Romanza in fa minore e “Mazurek” in mi minore entrambi per violino e orchestra, per finire con la Sinfonia in fa maggiore (numero 5 o numero 3, opera 45 o 76 … Dvořák stesso ha fatto molta confusione nella numerazione delle sue opere e anche delle sue Sinfonie!). Il violino era quello della ormai ben nota Spalla dell’Orchestra Verdi, Luca Santaniello, mentre sul podio la bacchetta era quella dell’ancor più noto Aldo Ceccato.

Beacco riesce in poche pagine a raccontarci non solo i pezzi di storia essenziali per capire come e dove si colloca l’opera, ma anche quelle poche note biografiche sull’autore e quel minimo di analisi musicale dei brani che consentono all’ascoltatore di godere appieno del concerto.

Dvořák meriterebbe più attenzione da parte delle nostre istituzioni musicali che, a dispetto della centralità che occupano nel panorama della musica romantica della seconda metà dell’ottocento, mettono in programma le sue opere con il contagocce (sebbene alla Società del Quartetto il Trio di Parma abbia recentemente eseguito l’integrale dei suoi Trii). Di lui ascoltiamo soprattutto l’ultima Sinfonia (la “Sinfonia dal Nuovo Mondo”, scritta durante gli anni in cui fu direttore del Conservatorio di New York), il meraviglioso Trio per violino, violoncello e pianoforte detto “Dumky” e al più lo Stabat Mater e il Requiem; altre opere vengono saltuariamente infilate in programmi omnibus, soprattutto per addolcire le orecchie degli ascoltatori quando si teme di averle messe a dura prova con pezzi troppo “ostici”. Bene dunque sta facendo l’Orchestra Verdi a eseguire l’integrale delle sue Sinfonie che, se non sono tutte dei veri capolavori, sono sempre sicuramente degne della massima attenzione e bene ha fatto a dedicargli un intero concerto.

Fa parte di questa integrale, appunto, la Quinta ascoltata nei giorni scorsi, resa un po’ opaca da un direttore che non ha nel proprio registro le ragioni delle emozioni e della magia nascoste negli spartiti ma che, ciononostante, ha fatto un lungo e apprezzato percorso fra le orchestre di mezza Europa, compresa quella dei Pomeriggi Musicali di Milano da lui diretta dal 1999 al 2005. Sempre più interessante appare invece il Santaniello che sembra voler smentire la teoria per la quale dopo qualche anno trascorso in orchestra non si riesce più a diventare solisti. Certo è difficile fare le due cose insieme, come fa lui, ma sembra sulla buona strada per spiccare il volo (né mancano ottimi elementi in quell’orchestra per riempire eventuali vuoti); comunque è sempre positivo e premiante valorizzare e motivare i professori dell’orchestra dando loro adeguata visibilità.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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