23 gennaio 2013

NOTE SUL PGT: LUOGHI URBANI TRA GOVERNO E DISEGNO DELLA CITTÀ


Il nome lo lascia intendere: Piano di Governo del Territorio, come a dire: non uno strumento che esprime semplicemente un progetto delle forme e delle funzioni per un determinato ambito territoriale ma un piano per il suo governo. Qualcosa che dovrebbe indicare una «direzione», una «guida politica o morale» (vocabolario Treccani), una strategia per la gestione politico-amministrativa del territorio comunale. Fin dalla denominazione, il sostituto del vecchio piano regolatore sembra dunque lasciare in secondo piano il disegno dei luoghi urbani: delle strade che quotidianamente percorriamo, delle piazze ove vorremmo sostare, di ciò che inevitabilmente vediamo intorno a noi.

La cosa non è priva di logica. I tempi lunghi delle trasformazioni urbane e territoriali – e dunque il possibile mutamento delle condizioni economiche, politiche e sociali nel quale ogni intervento ha una sua ragion d’essere – nonché il coacervo di norme, vincoli e interessi con cui ogni piano urbanistico deve fare i conti richiedono strumenti flessibili, di indirizzo, in grado di garantire – appunto – il governo di un territorio senza vincoli eccessivi come potrebbero essere considerati quelli morfologici stabiliti a priori da un piano urbanistico di carattere generale.

Da questo punto di vista anche la pianificazione ordinaria del secondo dopoguerra è andata in tale direzione. A parte alcuni casi esemplari, per anni i piani regolatori hanno definito destinazioni funzionali, quantità edificatorie, tipologie edilizie delle nostre città. Hanno fissato i tracciati di nuovi tronchi stradali o ferroviari. Hanno stabilito la collocazione e il dimensionamento di servizi e attrezzature collettive. Ma poco hanno detto della loro forma in rapporto ai luoghi, della loro capacità di produrre spazi collettivi dal carattere urbano, civile. Si è cioè creduto, non senza qualche ingenuità, che semplicemente controllando funzioni e quantità di determinati ambiti territoriali si sarebbe dato vita a luoghi e paesaggi di qualità. Così però non è stato, soprattutto dal punto di vista dell’architettura degli spazi pubblici, della loro urbanità.

Il Piano di governo del territorio di Milano riapprovato nei mesi scorsi (22 maggio 2012) – dopo la parziale revisione della precedente versione voluta dalla nuova maggioranza in Consiglio Comunale – e recentemente entrato in vigore (21 novembre 2012) ha per certi versi tentato di invertire questa rotta. Pur con qualche ambiguità concettuale, riconosce infatti che lo spazio pubblico (soprattutto il verde) è elemento fondamentale dell’abitare urbano e, per dirla con le parole del piano stesso, «il presupposto principale per ripensare una città costruita intorno all’uomo».

Tuttavia, nel nome dello «scarto metodologico con la pianificazione tradizionale», esso sembra non considerare con sufficiente attenzione che alcuni dei principali meccanismi di ingegneria urbanistica che lo connotano, pur offrendo inedite potenzialità progettuali, ne minano alla base il disegno. Dispositivi tecnici come l’indice unico di utilizzazione territoriale e la relativa possibilità di trasferimento dei diritti edificatori o l’indifferenza funzionale forse garantiranno una migliore “governance” del territorio (consideriamo questa eventualità anche se più di un osservatore sostiene che non sarà così). Probabilmente risolveranno alcune delle contraddizioni economiche, sociali o funzionali determinatesi nella seconda metà del secolo anche per come furono impostati i piani del dopoguerra (idem come sopra).

Lasceranno però essenzialmente irrisolta la questione della relazione tra urbanistica e architettura nella costruzione degli spazi aperti che, come la storia della città europea insegna, è elemento fondamentale per il disegno di luoghi urbani belli e ospitali. Né la «promozione di concorsi» o «l’assoggettamento degli interventi edilizi al parere della Commissione per il paesaggio», né il sistema di contrappesi messi in campo (come le «indicazioni morfologiche» o il «convenzionamento degli aspetti tipologici e planivolumetrici») sembrano poter colmare questa lacuna. È auspicabile che lo possano i piani attuativi relativi, per esempio, agli ex scali ferroviari e alle caserme in dismissione o i «grandi progetti di interesse pubblico» (cinture, raggi, epicentri) presentati schematicamente e con largo uso del condizionale.

Fuori da questi ambiti, di significativa entità ma pur sempre circoscritti, l’encomiabile obiettivo di riportare «al centro la città pubblica» (A. L. De Cesaris) appare indebolito dalla stessa matrice culturale del piano che – nel suo programmatico focalizzarsi sul “processo” più che sul risultato finale, sulla “regia” più che sul disegno – sembra non considerare appieno le potenzialità della prefigurazione di luoghi e paesaggi che è allo stesso tempo strumento progettuale essenziale e premessa a qualsiasi momento di consapevole confronto democratico.

Per concludere: non tutti gli effetti di un dispositivo complesso e sperimentale come il Pgt di Milano – esito non proprio felice di un percorso lungo e accidentato che ha lasciato segni indelebili sulla sua struttura e sui suoi contenuti – sono facilmente prevedibili. Dal corpo a corpo con la realtà politica, economica e sociale potrebbero risultare vincitori o sconfitti aspetti inattesi, soprattutto sul lungo periodo. Tuttavia, per quanto riguarda i luoghi urbani è ragionevole supporre che, rendendo labili elementi basilari del disegno degli spazi collettivi – come i volumi architettonici e i loro modi d’uso – e abbandonando a logiche imprevedibili la loro distribuzione e relazione, il piano corra il rischio di reiterare gli errori dell’urbanistica che vorrebbe rinnovare.

 

Renzo Riboldazzi



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