23 gennaio 2013

LIBRI O NON LIBRI. THAT IS THE QUESTION


Se sia meglio per l’anima… portarsi in giro un libro da nove etti o disporre di tutta la propria biblioteca in un semplice Kindle. O, meglio ancora: è più di sinistra far pagare dodici euro un libro o nove euro un e-book? Le librerie milanesi (e non solo) sono in crisi.

Articoli lacrimevoli, intellettuali sconsolati per la morte della cultura, peana di scrittori orfani e artisti diseredati. Tutti a piangere la lenta agonia delle cattedrali della carta salvo poi guardarsi bene dal mettere mano al portafoglio per soccorrere i disperati librai che, secondo loro, solo per passione, diletto e piacere, hanno dispensato negli anni cultura a piene mani.

Solo il Comune, con delibere e azioni mirate, cerca di correre ai ripari. La giunta, ma soprattutto gli Assessori al Commercio e alla Cultura, stanno facendo di tutto per facilitare la vita ad alcuni librai in evidente e inarrestabile crisi, ma sempre con interventi indirizzati a singoli casi e non all’intero settore.

Mentre Scognamiglio chiude la storica libreria antiquaria di via Rovello, Hoepli mette in cassa integrazione sessanta dipendenti, Utopia si sposta in periferia, le sedi Rizzoli, Feltrinelli, Bocca e il negozio della Tipografia dello Stato beneficiano di un affitto di favore per poter rimanere e sopravvivere in Galleria Vittorio Emanuele, e un gruppo di piccoli commercianti riuniti in Associazione sotto la romantica definizione di Associazione delle librerie indipendenti milanesi (indipendenti da chi?) si vedono promettere dai vari Assessorati la disponibilità di locali di proprietà comunale a prezzi fortemente calmierati.

Ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta? Siamo sicuri che: 1 sia utile investire in settori non più produttivi e che non lo saranno più in futuro tralasciando di incentivare attività che caratterizzeranno la vita dei nostri figli e nipoti? 2 sia equo discriminare tra le attività che si ritengono culturali e quelle che invece si pensa non lo siano, secondo parametri soggettivi e legati al nostro passato, penalizzando le seconde, additate come esclusivamente commerciali e quindi non meritevoli di attenzione? 3 sia giusto privilegiare alcuni soggetti rispetto ad altri con interventi “ad personam” rispetto a quelli a favore di tutto il settore a cui appartengono? 4 non sia meglio ricavare il maggior reddito possibile dai gioielli di famiglia per destinarlo al welfare sociale o a favore di interi settori economici invece che svenderlo per tamponare situazioni contingenti?

Riguardo al primo punto è inconfutabile che i maggiori risultati per la collettività si ottengano investendo negli ambiti trainanti e promettenti delle nostre economie. Solo da questi infatti potranno arrivare le risorse con cui alimentare anche le attività a redditività negative ma necessarie e indispensabili per una equilibrata convivenza sociale. Nello specifico dobbiamo chiederci se abbia senso sovvenzionare le piccole librerie quando sappiamo tutti che nei prossimi anni la digitalizzazione dell’editoria e la necessità di concentrazione degli investimenti e dei costi ne determineranno una progressiva scomparsa. Non siamo di fronte a un inutile accanimento terapeutico?

Passiamo al secondo punto. Non si tratta di un conservatorismo un po’ snob continuare a pensare che ci siano delle attività “più culturali” rispetto ad altre, stilando una classifica di meriti assolutamente soggettiva e legata al passato, negando il ruolo divulgativo e democratico, fortemente democratico, che le nuove tecnologie possono svolgere? Siamo veramente convinti che vendere un libro sia più “culturale” che offrire un computer, che l’informatizzazione sia nemica del pensiero e della speculazione intellettuale, e che se non si respira l’odore della carta i fratelli Karamazov non saranno la stessa cosa?

Pensiamo veramente che “Leggere significa toccare un oggetto che può avere valore maggiore del suo contenuto”, per dirla con Umberto Eco, e che questo aiuti la diffusione e crescita culturale? Ma non è mostruoso che per difendere l’ultimo baluardo si arrivi addirittura a patrocinare libri il cui contenuto è di valore inferiore al contenitore, anteponendo la forma alla sostanza, la presentazione del pensiero al pensiero stesso?

Ammesso e non concesso che la difesa della nostra cultura passi attraverso il sostegno alle librerie, perché alcune e non altre? Perché non tutte senza discriminazione? Perché salvare la Libreria Bocca e non la Scognamiglio, aiutare Rizzoli e non Utopia, tenere aperta la Tipografia dello Stato che ormai vende oggetti di fatuo collezionismo e non il mitico negozio di Gadget degli anni 80′? Perché quanto è stato dato ad alcuni non viene diluito su tutti gli operatori della cultura editoriale? Cosa unisce, se non la toponomastica, Rizzoli e la libreria Bocca? E cosa cambierebbe a Bocca se fosse in via Torino invece che in galleria, data la forte e singolare specializzazione del suo prodotto?

Il quarto quesito può aiutarci a chiudere il cerchio. Non sarebbe stato meglio affittare i locali della galleria ai signori della moda che erano disposti a pagarli a peso d’oro, quelli che quando fa comodo sono il fiore all’occhiello di Milano, per poi ridistribuire quanto incassato a tutta la città sotto forma di servizi e riduzione di costi per i cittadini Il denaro perso con lo sconto alle librerie della Galleria rimarrà in tasca a chi era disposto a versarlo nelle casse del Comune, le librerie elette non produrranno un maggiore reddito e non venderanno un libro in più, e anche i cittadini rimarranno a bocca asciutta e quindi non avranno un solo euro in eccesso per comprare un romanzo o un saggio in edizione economica.

E anche se avessimo voluto indirizzare i proventi degli affitti in un’unica direzione non era forse meglio mettere a “reddito culturale” il vil denaro di Calzedonia & Co aiutando tutte le librerie di Milano con una riduzione dei balzelli e tasse, da quelle per le insegne alla Tarsu, dall’Imu alla Cosap e così via, riducendo i costi di tutti gli operatori? Una proposta che invece, giustamente, sembra in cantiere a favore dei teatri milanesi per cui si è ipotizzata una riduzione indifferenziata dell’Imu?

E in ultimo, ma non ultimo, una considerazione generale tranquillamente applicabile anche all’offerta culturale. Quando supereremo l’atavica avversione ideologica verso le grandi catene commerciali (esclusa la Coop naturalmente) per correre in soccorso delle pseudo attività “indipendenti”, che non riusciranno mai a offrire i loro prodotti a prezzi concorrenziali e quindi accessibili a tutti, meno abbienti compresi, rendendo veramente disponibile e democratica la conoscenza culturale?

 

Andrea Bonessa

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti