27 aprile 2009

DA MORETTI A MEILI, ALLA RICERCA DI NOVITÀ


Dopo il concerto al Conservatorio, camminando in via Corridoni alzo gli occhi sul fronte di via Respighi della casa-albergo di Moretti in corso di ristrutturazione, e scopro con orrore che la geometria perfetta dei piani che scompongono il fronte è rivestita da un ridicolo cappello di lamiera di rame lungo quanto il fronte.

Moretti ha progettato il setto perimetrale del primo piano staccato dalla parete e avanzante in aggetto sul marciapiede, stabilendo così una relazione tra il fabbricato e la strada pubblica mentre, in secondo piano, la parte alta del fronte svetta verso il cielo. Ma l’effetto affascinante, che era esaltato dall’ombra formata tra i due setti bianchi, viene violentemente annullato dai lavori in corso: il bordo superiore del setto è ricoperto da una enorme lattoneria in rame, appiccicata alla superficie precisa di mosaico bianco. Certo, bisogna proteggere l’aggetto dall’acqua, ma con la “scossalina” che il lattoniere dell’impresa ha applicato a memoria nei precedenti cantieri di villette, o applicando un velo di resina idrorepellente e più efficace? Tra l’altro, facendo il giro dell’isolato, mi avvedo che la stessa lattoneria ignorante è stata appiccicata in cima a tutti i fronti, che appaiono così finiti da una larga fascia scura, invece di essere conclusi dalla sottile copertina chiara e aggettante, concepita da Moretti come una modanatura. Così, con un dettaglio decisivo sbagliato, la speciale tensione urbana di quest’opera di Luigi Moretti è irriconoscibile, negata alla nostra esperienza.

Lo scandalo di questo modo di rovinare una bella e nota architettura milanese diventa poi vergognoso, dopo la lettura del cartello di cantiere, dal quale impariamo che il committente di questo appalto è il Politecnico.

E’ un dettaglio, se paragonato ai progetti edilizi a grande scala che il governo cittadino progetta di praticare per raggiungere l’obiettivo di due milioni di abitanti? Forse sì, ma il fatto che la più prestigiosa istituzione della cultura tecnica milanese, il Politecnico, che dovrebbe essere luogo per eccellenza della ricerca più avanzata, sia nella conoscenza delle fonti necessarie al progetto di restauro del moderno, che nelle relative tecnologie, contribuisca invece alla rovina di una importante architettura milanese, è un indice terribile dello stato della cultura urbana cittadina.

Nelle scorse settimane ho guidato un gruppo di architetti elvetici, interessati a conoscere le novità architettoniche milanesi. L’opera nella quale è stato ravvisata la maggiore intensità di rappresentazione del genius loci cittadino è stato l’ampliamento delle Assicurazioni Helvetia (in via Marochetti, da piazzale Corvetto verso Rogoredo) di Marcel Meili e Markus Peter, che …proprio milanesi non sono. Ancora in cantiere, è un’opera complessa, che rivela il fascino suggestivo, interpretato in forme e tecniche aggiornatissime, subito dagli autori zurighesi per l’architettura del lungo dopoguerra milanese. Vi è possibile leggere in filigrana la conoscenza delle opere di Ponti e di Moretti, di Caccia Dominioni e di Magistretti, con la densità e la tensione formale propria delle architetture concepite come attività del pensiero.

Marcel Meili, figlio di Armin Meili autore del cosiddetto “grattacielo svizzero” di piazza Cavour, fa parte di quella generazione di architetti elvetici che hanno seguito l’insegnamento di Aldo Rossi ed hanno coltivato una relazione sottile tra Milano e Zurigo, che traspare nelle loro opere, nonostante il lungo periodo di smarrimento e scomparsa dalla scena internazionale subito dall’architettura milanese.

“Nei primi anni ’70 del secolo scorso – ha scritto recentemente Carlos Martì Arìs – la freccia che puntava dalla Spagna all’Italia era molto più potente della sua reciproca. La cultura architettonica italiana era in quegli anni affatto più ricca di quella spagnola o portoghese. Per gli studenti di architettura di Barcellona che terminavano gli studi allora, il viaggio di studio a Milano era quasi un rito obbligato, e l’interesse era rivolto non solo ai maestri consolidati (Albini, Gardella, Rogers, etc.), ma anche alle personalità allora emergenti come Vico Magistretti o Luigi Caccia Dominioni….Vorrei solo sottolineare come, a partire da un certo momento, attorno al 1990, la freccia cambi di direzione…”.

Se è vero che nella storia delle città, a fasi di stasi ed oblìo dell’architettura succedono fasi di attività e rinnovamento architettonico, è altrettanto vero che il rinnovamento è realmente tale, e non fragile e apparente, quando si impone una condivisa idea di città, o una condizione di sfida e confronto sul terreno tra più idee di città, e non soltanto un programma quantitativo. Ma se da una parte c’è il pessimo modo di abitare realizzato sull’area ex Innocenti, o quello altrettanto vecchio e premoderno dell’area ex Redaelli, e dall’altro l’architettura pubblicitario-spettacolare costruita sul bordo dell’autostrada per Genova nell’area Milanofiori Nord, il confronto è arretrato, privo di memoria elaborata, non offre niente di nuovo.

Alberto Caruso



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