23 gennaio 2013

cinema



 

FRANKENWEENIE

di Tim Burton [U.S.A., 2012, 87′]

 

Victor è un ragazzino solitario. Quando torna da scuola, saluta fugacemente la madre e si rinchiude in una buia mansarda che usa come laboratorio per i suoi audaci progetti scientifici.

Circondato da coetanei buffi e stravaganti, Victor ha nel fedele cane Sparky l’unico compagno di giochi.

La morte improvvisa dell’animale smuove la genialità e la passione del ragazzo che, in una notte dal cielo cupo e carico di fulmini, realizza il più impensabile tra gli esperimenti: la resurrezione.

Tim Burton, ideatore e regista di Frankenweenie, immagina così l’adolescenza del futuro dottor Frankenstein. Un classico paesino residenziale della provincia americana è l’ambientazione ideale per mostrarci l’iniziale riluttanza al desiderio di scienza e progresso che il macilento professor Rzykruski ha trasmesso agli alunni.

L’atmosfera gotica, tipica di Burton, è teatro di un’invasione dall’oltretomba in cui trovano spazio i numerosi omaggi del regista al cinema horror. In questo crescendo mostruoso, tra dramma e ironia, Victor ottiene finalmente il meritato riconoscimento alla sua rivoluzionaria opera scientifica.

C’è qualcosa di autobiografico in questo lieto fine. Nel 1984, un Tim Burton alle prime armi presentò alla Disney un cortometraggio che, però, la più grande casa cinematografica d’animazione non ritenne all’altezza. Dopo quasi trent’anni, e una carriera costellata di esperimenti di successo, anche il “dottor” Burton è riuscito a resuscitare la sua stupefacente creatura.

Marco Santarpia

In sala a Milano: UCI Cinemas Bicocca, The Space Cinema Odeon.

DJANGO UNCHAINED

di Quentin Tarantino [USA, 2012, 165′]

con: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington, Samuel L. Jackson

 

«Durante la commedia, non si può uscire mai dal personaggio», avverte il Dr. King Schultz (Christoph Waltz, bravissimo) spiegando a Django (Jamie Foxx) come recitare la parte del negriero per potersi far beffa del cattivo Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).

Ci riporta al 1858, da qualche parte nel Texas, Django Unchained [USA, 2012, 165′] di Quentin Tarantino, e lo fa citando il Django di Sergio Corbucci (fin dai titoli di testa) e molto western nostrano. Ma è una favola epica quella che vediamo sullo schermo, molto più simile al mito nibelungico di Sigfrido che – come spiega Schultz – deve scalare la montagna e sconfiggere il drago, prima di liberare la sua amata. Django, schiavo liberato dalle catene, sogna di ritrovare la moglie Broomhilda (Kerry Washington) per strapparla al «repellente gentiluomo» Candie.

Nella sua epopea, Django è accompagnato dal tedesco Schultz che come il Virgilio dantesco è guida, insegnante, amico. Prima lo libera, poi lo fa socio in affari: i due sono cacciatori di taglie. Ma, appunto, è l’amicizia a risultare strana in quel Texas dove i “negri” (così lì chiamano) sono considerati meno di oggetti.

«La schiavitù era una realtà brutale e surreale, più di quanto l’arte sia in grado di rappresentare», ha detto Tarantino. Allora, se la realtà è brutale basta affidarsi alla finzione del cinema che permette di giocarci con quella realtà, modificandola a proprio piacimento.

Con Bastardi senza gloria [2009]il «c’era una volta…» ha trasformato la storia del nazismo – anch’essa brutale e surreale – facendo esplodere Adolf Hitler in un cinema; questa volta Tarantino sceglie di riscrivere la storia degli schiavi nell’America di metà Ottocento. La riscrive perché non gli piace, perché la vuole cambiare: è consapevole dell'”onnipotenza” dello schermo cinematografico e della forza dell’illusione creata dalle ombre proiettate.

Stia pur sereno lo Spike Lee timoroso e depositino le penne i critici saccenti e, con un po’ di umiltà, invece di grattare le immagini alla ricerca della verità, si abbandonino sulle poltrone del cinema per farsi raccontare una storia. O, meglio, una fiaba: la vendetta di uno schiavo reso libero che lotta per ritrovare sua moglie e – finalmente – “vivere felice e contento”.

La vendetta è maneggiata con irrisione dal regista: il sangue sgorga eccessivo, nei litri e nei colori; i proiettili sono tanti, troppi. Ed è questo “essere troppo” il condimento che invita a guardare le immagini senza il pregiudizio della violenza gratuita ma con il sorriso sarcastico di chi sa che ciò che vede è soltanto una “burla”. La brutalità, infatti, è spesso più cruenta quando velata dal dogma piuttosto che quando manifesta e irriverente. Per accorgersene, però, bisogna godere della finzione e non avere la supponenza di voler andare oltre. Per questo, gli stessi critici che non si sono scomposti davanti alla lacerazione del Cristo di Mel Gibson, ora suonano le trombe schifati.

Ma noi spettatori incantati ci abbandoniamo alla visione e ci facciamo trasportare dalle musiche splendide, partecipiamo al desiderio di vendetta di Django e, in sala, ridiamo molto. Forse perché ben sappiamo che è un Film, e che «durante la commedia, non si può uscire mai dal personaggio».

Paolo Schipani

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti