23 gennaio 2013

libri – L’INDIFFERENZA DELL’ASSASINO


L’INDIFFERENZA DELL’ASSASSINO

Maurizio Cucchi

Guanda 2012

pp. 160, euro 14

 

libri_03Penso a due storie milanesi. Una prima la conosciamo, e bene. Dalle parti di Piazza Vetra, al tempo della peste nel milanese del 1630, inizia una tetra sequela di eventi che culmineranno con la condanna a morte e all’ignominia di due innocenti. È noto che una delle condanne non andò a buon fine e che la storia, in qualche modo, si è incaricata di risarcire i suppliziati. Questo, anche grazie a Manzoni che, con Storia della colonna infame, racconta nei dettagli fatti, processo, conclusioni. L’altra storia la conosciamo meno bene, almeno fino a ora. Non molto distante da dove si svolsero gli eventi del 1630 e oltre due secoli dopo, agì Gianfranco Boggia, il pluriomicida giustiziato la mattina dell’otto aprile 1862. Il caso fece, a suo tempo, scalpore per l’efferatezza dei delitti. Poi passò alle leggende metropolitane e agli interessi di Lombroso. Adesso viene raccontato nei dettagli nelle pagine dell’ultimo libro di Maurizio Cucchi.

Visitare, a distanza di quattro o di due secoli, i luoghi che hanno fatto da sfondo a quegli eventi non è difficile. Mi basta un petit tour urbano tra il Carrobbio e la via Nerino. Dove passo senza soluzione di continuità dalla parte (chiamiamole così, proustiamente) del Piazza e del Mora a quella di Boggia. Meglio: passo dalla zona dove viveva chi fu incolpevole e privato della vita a quella dove viveva chi fu assolutamente colpevole ma altrettanto privato della vita. E penso: qui stavano, respiravano, parlavano due disgraziati torturati ed eliminati per una ingiustizia. A un certo momento, però, mi troverò a pensare: qui stava, camminava, respirava un assassino. Ma, in verità, non so e non saprò con esattezza mai dove situare la vera linea di demarcazione fra le due zone. Avverto che esiste, ma non la trovo, non so quando inizio a camminarci sopra. E se fosse proprio Milano a essere, con le sue sue strade e luoghi, una metafora di quanto è labile il confine tra innocenza e colpa?

Me lo chiedo perché, di fatto, è proprio il libro di Cucchi che induce a simili riflessioni. Certo, l’assassino Boggia possiede una coscienza premorale. Peggio: ottusa, primitiva. Ma, nello stesso tempo, è quasi geometrico nelle efferatezze che conclude seguendo disegni precisi. I suoi non sono omicidi d’impeto. E nemmeno gli cambiano la vita. Al più, gli consentono di soddisfare la forte dipendenza dall’alcool. Uomo dall’intelligenza limitata e con ambizioni, orizzonti limitati. Figura poco evoluta, un po’ stralunata. Creatura elementare, intellettualmente azzerata. Ma tetragona, quasi meccanica in un agire che ricorda quello dell’automa: indifferente a tutto tranne agli scopi. Figura, dunque, orrendamente paradossale.

E come ogni paradosso, rappresenta qualcosa di incomprensibile. Di insondabile. Di fatto: Boggia è una creatura abissale. Ma è un abisso, il suo, nel quale non si riesce a entrare. Resta inesplorabile. Come, in fondo, il male.

Andiamo avanti. Boggia era un uomo come infiniti altri nella Milano ottocentesca. O quasi. Ecco: è proprio quel “quasi” che faccio fatica a determinare. Che sfugge. Riprovo a mettere insieme qualche coordinata offerta dal libro per afferrarlo meglio, rileggo i dati registrati da Cucchi. Boggia viveva da muratore città civile, veniva dal comasco. Possedeva perfino, a giudicare dalle immagini, un aspetto accettabile. E nessun contatto con la malavita, solo con qualche figura moderatamente losca. Perché i delitti, allora? Viene da rispondere: per una incapacità cronica, biologica di distinguere lecito e illecito. Per un senso di colpa troppo debole. Dunque, e vengono i brividi a constatarlo, per superficialità. Che sembra una categoria asettica, quasi innocente e invece, alla luce dei fatti, si rivela devastatrice. Pensando al Boggia, penso che il male peggiore è per le teste piccole, povere.

(Il male quindi è banale, come suona il memorabile titolo del libro della Harendt (Eichmann in Jerusalem: The Banality of Evil). È ovvio e insieme incomprensibile: qui siamo di fronte all’ossimoro-chiave, quello che inquadra con sintesi agghiacciante il peggior agire umano).

Torniamo a Boggia: ha ucciso, ma poteva fare altro e, forse, ottenere gli stessi effetti: rubare, truffare, lavorare, giocare … . La tensione omicida scatta con una apparente scarsezza di motivazioni. Sembra un atto leggero, semigratuito. Cucchi ricolloca Boggia nelle sue strade, gli rimette intorno vittime e testimoni, ricostruisce la trama di impulsi, di gesti che lo portano ad abbattere vite, poi a negare d’averlo fatto, poi a contraddirsi in maniera idiota. È spaventoso verificare che non si pente. Ma più spaventoso notare che in lui che non c’è mai una ragione forte, decisiva, vitale. Non c’è odio, per esempio. Solo gesti calcolati. Il più inquietante dei quali è l’attirare e uccidere le vittime in cantine, in un sottosuolo che sembra essere l’habitat naturale d’un assassino. Ma di queste simbologie Boggia non ne sapeva, certo, niente.

E dunque il male appare, una volta di più, immotivato. E allora è peggio che banale: proprio non si comprende perché deve esistere, imporsi, sovrastare gli umani. Forse, la verità è questa: c’è, ma non si arriva a capirlo. Mai. Al più, lo posso afferrare con una narrazione. Come accade nel libro di Cucchi.

Il quale Cucchi, dal male non è certo affascinato. Ne è atterrito, quanto tutti noi. Aggiungo: come tutti noi, ne rimane come abbagliato. Perché il male si para davanti frontalmente ma, nello stesso tempo, rimane estraneo, lontanissimo. E allora suscita meraviglia. Forse, quella stessa stupefatta, atterrita meraviglia di chi vive l’esperienza del demoniaco, del cosiddetto “tremendo”, dell’assolutamente diverso che irrompe nella vita. Il male ci ammutolisce.

9. Invece, Cucchi lo racconta. Anzi: può permettersi di farlo con un tono lucidamente ironico, spostato rispetto a quanto lo abbaglia. Perché la sua poesia e la sua prosa sono, da sempre, zeppi di sguardi sul mondo elementari e ottusi. A volte, tanto bassi che sembrano emergere da zone dell’essere infernali. Forse, da un passato ancestrale, Venute da un sottosuolo che, a volte, sale alla vita e la fracassa. Figure pericolose, incubi. Forse, figure dell’inconscio che ci portiamo appresso e che, in fondo, girano dentro a noi. Insomma: Cucchi aveva già raccontato di Boggia. Senza saperlo. E con questo libro ha chiuso un conto aperto. (Mario Santagostini)

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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