23 gennaio 2013

musica


SWANN ALLA SOCIETÀ DEL GIARDINO

 

Mercoledì scorso gli “Amici delle Serate Musicali” – benemerita Istituzione cui tutti i sinceri amanti della musica dovrebbero associarsi per contribuire a tenere accesa una fiammella di speranza affinché “Milano continui a essere une delle capitali musicali del mondo” – ha organizzato nel “salone d’oro” della Società del Giardino una serata particolare: non era un concerto, né propriamente una conferenza, ma neppure un dibattito (peccato che non si sia data voce al bel pubblico che affollava la sala!), diremmo piuttosto una serata conviviale per suggellare con la musica l’amicizia fra l’Associazione ospitata e il Circolo ospitante (la prima una giovane quarantenne, il secondo un aristocratico vecchietto con due secoli sulle spalle).

L’occasione era la presenza a Milano – e la disponibilità – di un personaggio singolare e interessante, l’americano (di Williams, in Arizona) Jeffrey Swann, pianista e intellettuale sessantenne poliglotta che – ospite e amico delle Serate Musicale dal 1975, quando a ventiquattro anni vinse il primo Premio Ciani – era stato protagonista due giorni prima di un interessante concerto al Conservatorio dedicato a “Wagner and his friends”.

Passando da Wagner a Brahms e da Mahler a Schönberg, Swann ci ha intrattenuto sul tema della “Vienna fin de siècle“, cioè negli anni fra il 1890 e il 1914 in cui non solo la musica ma anche la letteratura (Musil), la pittura (Klimt, Schiele, Kokoschka), l’architettura (Loos) e persino la psicologia e la medicina (Freud) compivano una trasformazione fondamentale. In un italiano quasi perfetto, e sedendo ogni tanto al pianoforte per qualche esempio musicale, ha descritto l’atmosfera straordinaria vissuta dalla capitale dell’impero austroungarico prima del suo improvviso e definitivo crollo con la sconfitta della prima guerra mondiale. (Raramente, ha fatto osservare Swann, si è verificata nella storia una scomparsa così rapida e totale di un mondo solido e vasto come quello degli Asburgo).

Mentre a Parigi, in quegli stessi anni, si combattevano le certezze borghesi del passato per portare la rivoluzione in tutte le arti, a Vienna gli artisti non immaginavano di rivoluzionare alcunché ma di “andare oltre” procedendo nell’alveo della naturale evoluzione del linguaggio e dell’espressione e, insieme agli studiosi e ai pensatori di altre discipline, distoglievano i loro sguardi dal mondo esteriore per dirigerli verso quello interiore, senza rotture con il passato: psicanalisi e dodecafonia, espressionismo e razionalismo, tutto convergeva a cogliere gli umori più profondi dell’io e a distrarsi dalla realtà esterna. L’ambiente politico-sociale aiutava molto questa attitudine all’astrazione, perché astratto era lo stato-impero in cui vivevano, cosmopolita e privo di identità nazionale, una società che parlava tante lingue e coltivava tante religioni, costumi e tradizioni molto diversi tra loro.

Vienna era dominata da due sentimenti pervasivi e ossessivi: irrealtà e nostalgia. Irrealtà in quanto distacco dalla storia e assenza di una comunità politica nella quale misurarsi; nostalgia per qualche cosa che manca – il senso di appartenenza – ma che non si riconosce e non si sa definire.

È in questa condizione psicologica e sociale che si consuma il passaggio da Wagner (1813 – 1883) e Brahms (1833 – 1897) a Mahler (1860 – 1911) e Schönberg (1874-1951); è abbastanza sorprendente pensare che negli anni novanta, in un clima ancora culturalmente dominato da Wagner (era mancato pochi anni prima) vivevano a Vienna – si conoscevano perfettamente e si frequentavano – l’anziano Brahms, Gustav Mahler nel pieno della sua maturità e autorevolezza (diventa il potente direttore dell’Opera nel ’97, anno della morte di Brahms) e Arnold Schönberg giovane compositore al suo primo capolavoro, la Verklärte Nacht.

Anni straordinari, dunque, che Swann ha illustrato eseguendo al pianoforte brani di tutti e quattro i compositori citati, dimostrando quanto poco la musica abbia bisogno di virtuosi e quanto invece di conoscenza e di consapevolezza di ciò che si suona; normalmente in un concerto tradizionale non apprezziamo i musicisti che parlano, spiegano, descrivono, raccontano. In questo caso invece, in una cornice diversa e con un approccio culturalmente ineccepibile, è stata una festa della ragione e del sentimento, uno di quei momenti in cui Milano è una grande città.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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