27 aprile 2009

MILANO: LO SGUARDO DI GIANO BIFRONTE


Chi è nato e cresciuto nella Milano capitale morale d’Italia, il concetto di “decadenza” era abituato a trovarlo nelle cronache cittadine che narrano il calare della burocrazia spagnolesca che mette fine all’indipendenza della città rinascimentale e si porta pure dietro la peste; oppure nella fine della città degli illuministi caduta nelle mani della disprezzata corona sabauda, che come primo atto della “Liberazione”, equipara lo status della città a quello delle province del Monferrato; oppure ancora alla cacciata definitiva del sindaco Mangiagalli, conservatore ma eletto dal popolo e con il difetto di essere medico e scienziato di suo, per far posto alla grigia schiera degli anonimi podestà incaricati di tenere in sonno la città dove era nato il Fascismo mentre il suo Duce si era spostato a Roma. In quella stagione si affermava una nuova classe politica e dirigente, mettendo fine al potere sonnacchioso delle grandi famiglie borghesi, che si rivelò presto in grado di assecondare e almeno in parte guidare l’energia e la forza sprigionatasi dallo sviluppo industriale, dall’arrivo di migliaia d’immigrati dal Sud trasformatisi in pochi anni nei nuovi milanesi, essendo, ancora una volta, “laboratorio ” politico e sociale in anticipo sul resto dell’Italia.

Per questi cittadini, come chi scrive, è difficile credere che molte cose del dopo Tangentopoli fossero reali: sembra impossibile che, seriamente, una città come Milano abbia potuto avere dei nuovi grigi podestà, come Formentini e Albertini, prima di sancire anche formalmente il ritorno all’esercizio diretto del potere da parte delle grandi famiglie, spostando il luogo stesso del potere pubblico di poche centinaia di metri, da Palazzo Marino a salotto di casa Moratti. Siamo rimasti come attoniti, a guardare indietro con nostalgia che si faceva rimpianto di fronte ad ogni atto, a ogni scelta dei vecchi padroni di Milano tornati in sella e quasi increduli di non dover pagare più mance e stipendi alla servitù. E siamo rimasti ammutoliti di fronte al disinvolto capovolgimento dei canoni stessi della logica, che portano a costruire case e uffici quando si registra il più alto livello di cubatura inutilizzata nella storia di Milano o al raddoppiare dei costi della politica ad opera di chi dell’antipolitica ha fatto la sua bandiera: più o meno come la stampa e l’informazione cittadina, che, prima di tornare all’antica pratica della “laudatio” del potere in carica, ha osservato un lunghissimo, interminabile minuto di silenzio su tutto quanto non fosse addebitabile ai “politici della prima Repubblica”.

Pur versando in questo stato catatonico, abbiamo però avuto figli, abbiamo visto arrivare nuove facce e nuove braccia, abbiamo in una parola visto nascere e consolidarsi come presenza l’ennesima, nuova Milano, senza ricordi che somigliano troppo a rimpianti, che ha a che fare con l’inettitudine dell’attuale classe di amministratori locali che ci mette un anno per scegliere tra un tuttofare di famiglia e l’ennesimo manager di scarso successo Ibm in pensione per guidare niente di meno che il “futuro” dell’Expo. Questa nuova Milano ha i cromosomi dell’attivismo, della spinta verso il futuro del milanese di ogni tempo e presto, molto presto comincerà a premere, a chiedere conto a chi non ha nulla per poterla guidare e indirizzare verso il futuro, magari con una delle quelle esplosioni di rabbia incontrollata, come quella dei milanesi che pensarono di uscire dalla crisi linciando il povero Prina ministro delle tasse di Napoleone.

A noi tocca quindi guardare avanti e indietro allo stesso tempo, per dare occhiali costruiti con la conoscenza e la tecnica del passato per guardare il presente e soprattutto il futuro. Pensando che si “stava meglio quando si stava peggio” e che non ci piace vivere un periodo di decadenza, ma sapendo anche che questo periodo può durare secoli, come al tempo degli spagnoli, o un ventennio, come al tempo del fascismo: sono già passati quasi venti anni dall’inizio di questa crisi per Milano, che non ne passino ancora molti altri dipende (anche) da noi.

Franco D’Alfonso



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