16 gennaio 2013

musica


 

YEVGENY SUDBIN

Il concerto di lunedì 7 gennaio, con il quale le Serate Musicali hanno iniziato l’anno nuovo al Conservatorio, è stato prodigo di conferme a proposito del nostro ragionare su vecchi e giovani musicisti, sulla impaginazione dei programmi dei concerti, sulle nuove scuole di interpretazione musicale, sulla smodata generosità del pubblico milanese e via di seguito con le osservazioni che i nostri quattro lettori ben conoscono e delle quali rischiano anche di annoiarsi. È stata la dimostrazione di un teorema e non possiamo tacerne.

Sedeva al pianoforte un trentaduenne di San Pietroburgo, Yevgeny Sudbin – non più di primo pelo se si pensa che è stato ospite delle Serate Musicale già nove volte – che ha presentato un programma di banalità disarmante. Nel primo tempo quattro Sonate di Scarlatti, la terza Ballata opera 47 di Chopin e le Funerailles di Liszt; nel secondo tempo la quinta Sonata opera 53 di Scriabin, il decimo Preludio opera 23 di Rachmaninov e la celeberrima Danse Macabre di Liszt, da Saint-Saens.

Primo sconcerto con Scarlatti di cui ha eseguito due Sonate con esasperante lentezza (visibilmente spacciata per profondità) alternate ad altre due a velocità supersonica (spacciata per brillantezza); nessuna attenzione al fatto che furono scritte per un clavicembalo settecentesco e che per eseguirle su un moderno “gran coda” da concerto occorre qualche prudenza e una tecnica specifica (niente pedale, legature eteree, fraseggio da parrucca e crinolina, ecc.). E poi, come si fa ad attaccare subito Chopin – e proprio una Ballata! – quasi fosse un’altra Sonata scarlattiana, senza la consapevolezza che si tratta di due mondi diversi, che fra l’uno e l’altro stati ghigliottinati Luigi XVI e Maria Antonietta, che i sanculotti si sono impadroniti della Bastiglia, che sono arrivati e passati il Terrore e Napoleone? Come si fa a ignorare che intorno a Scarlatti c’erano incipriate dame di corte mentre a fianco di Chopin c’era quella straordinaria George Sand, donna “libera” per antonomasia della società europea?

Superato lo choc eccoci a Funerailles, un pezzo delle “Armonie poetiche e religiose”, scritte proprio nei giorni in cui Chopin moriva, con non poche allusioni alla sua celebre Marcia Funebre (allude quasi sempre, Liszt, a qualcuno; raramente ha la testa libera da altre musiche, ma ha avuto la capacità di convincere il mondo intero – a torto o a ragione? – che parafrasare la musica altrui sia un gesto di somma cultura); anche in questo caso Liszt non è Chopin e i due non possono essere eseguiti come se si trattasse di un unico autore. Hanno diverse radici culturali e soprattutto diverse sono state le loro vite e i milieux in cui si sono svolte; polacco l’uno e ungherese l’altro, Chopin ha vissuto principalmente in Francia e Liszt in Germania, uno schivo e riservato, l’altro mondano, travolto dal successo. Sudbin non ha colto queste differenze, ha imposto il proprio segno e la propria personale sensibilità musicale a tutto ciò che eseguiva, senza penetrare l’identità dei singoli autori.

È stato interessante nel secondo tempo il confronto fra Scriabin e Rachmaninov; coetanei, grandi amici e compagni di scuola, entrambi di famiglia aristocratica, il primo morto in Russia – ove erano entrambi nati – a quarantatre anni, il secondo settantenne negli Stati Uniti ove era emigrato allo scoppio della rivoluzione bolscevica. Benché le due opere di cui parliamo siano coeve, dei primi anni del novecento, è difficile immaginare due atmosfere e due mondi sonori tanto diversi. La Sonata in fa diesis maggiore di Scriabin è tanto oscura, tenebrosa, intellettuale, quanto il Preludio in sol bemolle maggiore di Rachmaninov è solare, sorridente, affettuoso. In questo caso il nostro pianista non ha potuto fare a meno di mettere in evidenza i due opposti – la musica diceva tutto da sola – aiutato anche dalla congenialità con i compatrioti. Peccato che abbia inopinatamente deciso di non interrompere l’esecuzione fra il Preludio di Rachmaninov e la Danse Macabre di Saint-Saens/Liszt facendo svolgere al primo il ruolo di introduzione alla seconda; ma non vi è alcuna ragione al mondo per accostare queste due opere, e di farle “sorgere” una dall’altra. È stata una forzatura senza senso che ha generato confusione e spaesamento negli ascoltatori.

Insomma, come sempre (sta diventando un noioso ritornello), non basta saper suonare e avere una buona tecnica: l’interpretazione musicale non può prescindere dalla cultura musicale – che a sua volta è innanzitutto cultura tout court – senza la quale qualsiasi esecuzione diventa mero esercizio virtuosistico.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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