9 gennaio 2013

LAVORO E MALAFFARE: LO SCARTO AMBROSIANO


Il 12 dicembre 1969 a Milano esplode una cattiveria – stupidità violenza irresponsabilità insieme, ma non necessariamente nelle stesse persone – ancor oggi insondabile nel suo nocciolo duro. Più trasparente lo scarto degli anni 1970, quando a Milano i rapimenti diventano industria con fatturato importante e crescente, acceleratore e moltiplicatore economico di una malavita organizzata che, negli anni 1980, contribuisce alla ‘Milano da bere’ fornendo droga e prostituzione (specie minorile) per soddisfare una domanda crescente e sempre più qualificata, anche professionalmente.

I soldi sono come l’acqua, che si mescola e rimescola fino a rendersi indistinguibile, e negli anni ’90 i soldi del malaffare entrano nel calderone del mattone e dei suoi antecedenti e derivati: le bonifiche delle aree industriali dismesse e lo smaltimento dei rifiuti tossici industriali prodotti dalle aree industriali ancora attive, trasformandoli in effetti perversi della transizione generata dalle crisi petrolifere degli anni ’70 e dall’attenzione legislativa per l’ambiente, nel contesto di una società sempre più ricca (solo) di soldi. Negli anni 2000 lo scarto diventa ufficiale quando il malaffare non è più solo un fattore, ma un attore della vita pubblica.

Il grave errore di valutazione commesso dal legislatore negli anni 1970 – trapiantare i bacilli del malaffare nel corpo (supposto) sano di Milano e della Lombardia per trasformarli omeopaticamente in geni sani – ha prodotto uno scarto economico, prima che civile, sociale e politico. Una montagna di miliardi (di povere lire, ma un bel mucchio) è spostata dalla produzione per il mercato (più o meno concorrenziale) al monopolio della violenza, col correlato trasferimento di potere decisionale dai Brambilla (all’apice del loro successo cavalieri del lavoro) agli innominati che vogliono solo restare tali.

Implicito pur se invisibile è lo scarto dai valori del lavoro fatto bene e fondamento della dignità personale e dell’identità ambrosiana, ai disvalori del rifiuto del lavoro come fatica servile, sostituita da una libera iniziativa volta esclusivamente al profitto (esentasse) a ogni costo (altrui), senza regole né controlli. Nel nostro piccolo, una anticipazione della finanza globale, con le conseguenze che sappiamo. Non è perciò il caso di farcene vanto perché questo scarto in avanti ambrosiano è una testimonianza di debolezza. Debolezza civile di fronte alle sfide (alla lettera) imposte da una malavita importata (lì per lì è sembrata una buona idea). Debolezza degli ambienti d’affari, che subiscono ricatti dolorosissimi e troppo spesso mortali senza sapere dare una risposta coesa e quindi efficace. Debolezza amministrativa e politica nel contenere e reprimere un’ondata organizzata di crimini, forse anche distratti da emergenze sociali e politiche che si volevano tali da parte di un ceto dirigente spaventato e/o furbo.

Purtroppo questa debolezza ambrosiana è stata troppo a lungo occultata da un marchio non meno erroneo solo perché azzeccato, nelle formule della ‘locomotiva d’Italia (d’Europa addirittura)’ e meno ingenuamente del ‘rito ambrosiano’. Tutto sembrava possibile, sottinteso col duro lavoro e la preparazione necessaria per farlo bene. E in effetti in quegli anni tutto sembrò diventare possibile e tanto più quanto più ci si allontanava dal duro lavoro e dalla necessaria preparazione, prendendo scorciatoie che facevano guadagnare un sacco di tempo e di denaro. Emblematica, quasi un pesce pilota, la formazione professionale che, da iniziativa intelligente e lungimirante, strada facendo subì uno scarto entrando nella new economy della corruzione, fino a sparire.

A onore (non solo) dei milanesi e dei lombardi va detto che, pur non essendo più una locomotiva né una capitale morale (ci mancherebbe, dopo avere dato tante prove politiche di pancia e dintorni), la società e l’economia ambrosiane sono rimaste vive, anche se febbricitanti e sempre più fuori asse rispetto al loro perno economico culturale e storico, il lavoro fatto bene. La pianta resiste, e in tempi di crisi vera e grave, questo è l’essenziale. Non resta che migliorare e ritrovare il significato – il gusto, il piacere, la soddisfazione – del lavoro fatto bene, che dà sostanza al denaro.

I venti della globalizzazione ci hanno portato una nuova e diversa nuvola di geni. Non più i malavitosi degli anni 1970, i rivoluzionari individualisti degli anni 1980, gli innovatori drogati degli anni 1990, i liberali assolutisti degli anni 2000. Più umilmente, immigrati extracomunitari (ma non solo, ci sono anche gli europei al seguito delle loro imprese) che nel lavoro hanno il perno della loro identità “in partibus infidelium” (le nostre). Come ha detto uno di loro intervistato per radio, il lavoro non manca a Milano, per chi vuole lavorare. Quel che manca è il lavoro pagato bene, o anche solo decentemente. Ma il bisogno di lavoro fatto bene aumenta di giorno in giorno, sempre più necessario e sempre più di qualità in una società che invecchia e si mescola col resto del mondo, perché il resto del mondo è sempre più di casa da noi, e noi siamo sempre più di casa nel resto del mondo.

Manca un ceto dirigente adeguato. Anche questo è un lavoro di qualità, da fare bene, con la necessaria preparazione.

 

Giuseppe Gario



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