12 dicembre 2012

OBAMA C’EST MOI!


Come sempre i politici italiani sono velocissimi nel rigirare qualsiasi frittata: a leggere i giornali non ce n’è uno che era stato per Romney. Formigoni e Maroni in testa sembra che Obama sia il loro fratello di latte (mi scusi Obama per Maroni). Mi domando se Formigoni abbia mai discusso con Obama dei same-sex marriages. E Maroni? Gli avrà sicuramente raccontato quella barzelletta leghista che fa tanto ridere: “l’è culpa mia se lu l’è negher?”. La chutzpah di questi personaggi resiste al martello pneumatico. Ma non sono solo i politici: a leggere i terzini del Corriere, (in grandissima forma Antonio Polito e Ostellino) si respira una buona boccata di aria fresca, sopratutto nuova e originale, e in conclusione si capisce che Obama ha preso lezione da loro e ripetizione da Casini. Per Polito l’estremismo non paga: per farsi eleggere bisogna fare come Polito. A dire la verità non ha pagato l’estremismo di destra, perché il grande rimprovero che è stato fatto a Obama dal suo elettorato, e che forse gli ha fatto perdere alcuni voti, è stato di essere troppo tiepido, non di essere troppo estremista.

Non è stato Obama, ma Romney a fare un giro di valzer verso il centro e le minoranze ispaniche, quando si è accorto che i Repubblicani rischiavano di essere insabbiati come partito di bianchi in età avanzata. Polito ha una semplice spiegazione “It’s the economy stupid.” In periodo di crisi le persone si dimenticano degli issues, ma non si rende conto, nonostante la sua cultura marxista, temo ormai sepolta, di stare citando Brecht “Erst kommt das Fressen, dann kommt die Moral!“. L’idea di fondo è che Obama ha vinto al centro: certo, dice Polito, il same sex marriage gli avrà fatto perdere qualche voto (come fa a saperlo? Boh. Ma non dice Polito quanti gliene ha fatti guadagnare da un’altra parte) ma questi temi non interessano gli elettori in questi momenti.

Peccato che nella storia politica americana concedere i matrimoni ai gays, varare un piano di sanità pubblica, ma soprattutto dire che i ricchi (come lui) devono pagare più tasse dei poveri, sono azioni molto lontane dall’elettore medio che piace a Polito, e sono considerate da gran parte dei perbenisti americani posizioni molto estreme, che per molti di loro sono “socialiste”, esattamente come sarebbero ritenute “comuniste” da Berlusconi. Obama le ha testardamente perseguite non perché portassero voti del centro, ma perché è una persona seria che crede nelle cose in cui crede, un tipo di mentalità che il realismo dei terzini non riesce neppure a concepire essendo la razionalità dei terzini interamente blasée (cauteriata, traduce correttamente Rosmini, riferendosi a questo tipo di coscienza).

Peccato che questa interpretazione tralascia alcuni importanti dati di fatto. Obama ha fatto man bassa non di voti di centro, ma di minoranze (13% neri e ispanici passati dal 6 al 10%) conquistate con il porta a porta e soprattutto con la grande passione dei volontari. Ma per i terzini questa roba non esiste: Realpolitik e Zweckrationalitaet, tutto il resto non esiste. E quella lacrima? Roba da sissies. I veri politici non piangono, la politica è solo “sudore e merda”, e corsa al centro. Inutile dire che Obama è una persona decente che crede in quello che fa, ma non è un nincompoop, sa il fatto suo e, come la volta scorsa aveva sorpreso con l’uso straordinariamente abile della rete, questa volta ha sorpreso tutti, a partire dal suo avversario Romney, con l’uso sistematico delle scienze sociali: un team dell’università di Chicago ha messo in piedi uno straordinario sistema di informazioni (chiamatelo pure data-base, ma è riduttivo) che ha permesso ai volontari di individuare, sezione elettorale per sezione elettorale, chi non aveva votato in precedenza in modo sistematico e puntuale (attenzione, sono dati pubblici, non c’è nessuna violazione della privacy).

Ovviamente senza il lavoro volontario di decine di migliaia di volontari queste informazioni non sarebbero servite. È questa la grande lezione di Obama: che si possono portare avanti anche politiche impopolari se si è pronti a investire molto e se si riesce a comunicare con le persone tanto ai margini della società, da non essere nemmeno in grado di esprimere il proprio voto. Altro che centro! Obama ha vinto nelle periferie, ma i supermaghi della analisi politica italiana, come Polito, queste cose non le possono vedere, contrariamente alla interpretazione materialista che sia l’economia a motivare le persone (andatelo a raccontare ai volontari della campagna di Obama) è proprio nei periodi di crisi che si liberano molte risorse personali e molti elettori dai loro legami tradizionali e che la proposizione seria di progetti difendibili, ancorché non perbenisti, può motivare azioni innovative.

Piero Ostellino non ha problemi, Obama non gli piace e, in aperta contraddizione con Polito, sposa la propaganda di Romney senza alcuna riserva e crede che Obama abbia vinto, non perché sostenuto dal centro, ma perché “è rappresentativo della way of life pauperista e assistenzialista”. Cosa sia questa way of life
pauperista non mi è chiaro, ma era chiarissimo a un Romney sempre vestito e pettinato come un signore da country club diretto al bar. È la vecchia storia che Obama è un socialista e Ostellino non fa che riprendere in tono più soffice lo spot politico di Perteffy, che mi ha ossessionato durante le ultime due settimane di campagna.

Cerco di controllare la mia Schadenfreude, ma non posso che rallegrarmi per tutti i milioni di dollari che Perteffy ha speso per la campagna contro Obama e che, lo giurerei, sono in buona parte finiti nelle tasche di creativi che poi per Obama avranno probabilmente votato. Anche il WSJ se la ride un po’ sotto i baffi “After Warning of Slide Into Socialism, Billionaire Peterffy Disappointed by Election.“. L’ad di Peterffy era un esempio vergognoso di propaganda stalinista, forse l’unica che l’immigrato ungherese conosce, e non ha avuto successo anche perché finalmente, come per il comunismo di Berlusconi, si sono affacciati nuovi elettori, giovani, immigrati da paesi non europei, che non comprendono questi codici obsoleti. Ostellino si produce nella improbabile tesi che “se gli Usa fossero ancora un Paese conservatore – nell’accezione americana di liberale anche sotto il profilo socio-economico – avrebbe vinto Romney. Né l’alternanza elettorale fra democratici e repubblicani ne fa un Paese di centro.

Gli Stati Uniti sono, ormai e a modo loro, un paese tendenzialmente statalista. A dare la definitiva spallata al sogno individualista è stata la mutazione antropologica prodotta dalla massiccia immigrazione latinoamericana”. Gli Ostellino sono terrorizzati dagli ispano-americani, come generazioni di conservatori in passato hanno avuto paura degli irlandesi, degli italiani degli ebrei e via dicendo e non si rende conto del ridicolo che può suscitare una affermazione come questa: “forse, la prossima tappa sarà la scomparsa dell’inglese, come lingua ufficiale, sostituito dallo spagnolo” (perbacco in molte città lo spagnolo è già la seconda lingua). E questo terrore ha portato il proprietario di un McDonald’s in West Virginia a esporre la bandiera americana al contrario o gli studenti della Università del Mississippi (altro stato con forte assistenzialismo) a inscenare un riot razziale contro Obama.

Il rispetto dei fatti non è il punto forte di chi, come Ostellino, ha opinioni tanto granitiche e ho l’impressione che Ostellino faccia qualche confusione di date. C. Wright Mills che scrive nel 1951 e 1956 quando l’ondata ispanoamericana era appena uno sciaguatto nel West Side, ha come riferimento Behemoth del 1942 e teme una evoluzione interna alla struttura organizzativa capitalista. Non c’entrano per nulla gli ispanici, così come non c’entrano con il New Deal e la Tennessee Valley Authority, il più celebrato degli interventi statali (dello stato federale) a sostegno dell’economia. La concentrazione di potere nello stato federale è, se vogliamo, una conseguenza inevitabile di Yalta e del proseguimento a livello mondiale delle teorie per così dire genetiche della cultura americana: quelle che Hector de Crevecoeur, duecento anni prima, aveva chiamato love of newness e senso di manifest destiny della cultura americana, poi riprese da Sullivan. È evidente che se l’America crede, come ha creduto, finora al suo ruolo di leader mondiale, come hanno ben spiegato C. W. Mills e decine di altri autori era inevitabile una concentrazione di potere nelle mani dello stato (federale) “Che piaccia o no, l’America di Tocqueville – che la vecchia Europa ammirava e della quale, contemporaneamente, diffidava – non c’è più”. Alla buonora! Ma sono passati quasi due secoli (1835, 1840)!

Tocqueville è uno dei fondatori della mia disciplina, e il suo testo è importante e attuale per i problemi teorici che lucidamente pone, prenderlo come riferimento di tipo descrittivo o storiografico per la comprensione della società americana contemporanea sarebbe un po’ come intervistare Rip Van Winkle all’uscita dalla grotta. Lipset in America the First New Nation sottolinea l’importanza dei coloni e degli immigrati, l’America senza immigrati non sarebbe America e Rudy Giuliani, il sindaco idolatrato dai conservatori milanese, sugli immigrati ha parole da vero liberale “If we remain united and focus on our mission we will do justice to the great legacy of immigrants and we will protect the rights of immigrants, both those who are in the country already and those who plan to come here in the future. Then we will be advancing the principles of America which are also the founding principles of this organization“. Forse Ostellino non lo sa o forse non lo vuole dire, ma gli stati con la maggior proporzione di assistiti da welfare sono proprio gli stati della Red America, quella che vota Romney. E poi chi è l’assistito? Romney che paga sui suoi miliardi di dollari il 14% o la sua donna di servizio che sulle sudate migliaia paga il 30%? Non si potrebbe una buona volta smetterla con questa propaganda?

Obama sarà probabilmente uno dei grandi presidenti della storia americana, ma non lo possiamo dire ora con certezza perché la storia è anche capace di giocare brutti scherzi e ci troviamo tutti su una pericolosa “rocky road“. Possiamo dire però che lo è già stato in buona misura: la sua dirittura e la sua ragionevolezza (che gli viene spesso rimproverata dai suoi sostenitori) hanno già ampiamente dato ragione a chi gli ha assegnato il Nobel. Il suo comportamento durante l’uragano è stato quello di un uomo di stato (e vengono i morsi alle budella se lo si confronta con le volgari buffonerie di Berlusconi all’Aquila) e la sua sincerità ha bucato lo schermo tanto da attrarre anche il plauso degli avversari. Ostellino non si può trattenere dall’usare il populismo di bassa lega tipico dei conservatori italiani (che stanno sempre dalla parte di chi ha i soldi, ma poi se uno che non è povero fa discorsi di sinistra gli saltano alla gola), e stigmatizza i modi “propri del ricco establishment cui appartiene”. Cerca poi di fare un improprio confronto con Kennedy, un altro che la destra italiana non ha mai digerito, rivelandoci che il vero grande presidente è stato Johnson.

Vero verissimo e ho ribadito proprio questo punto il 30 ottobre scorso in un post agli amici del Circolo Rosselli. Vero anche che, allora, Johnson venne attaccato dai democratici più liberal, ma c’era la guerra in Vietnam che appariva stolta e crudele, come poi si rivelò. Proprio un paio di anni fa visitando il ranch di LBJ (con molta commozione) con un mio coetaneo, Michael Gagarin, professore a Utexas, commentavamo la poca saggezza delle grida degli studenti di allora: “Hey Hey, Lbj, how many kids did yo’ kill today“. Ma la consapevolezza che Johnson è stato un grande presidente era già ben solida in chi aveva seguito la legislazione della Great Society e della lotta alla povertà (che per il suo assistenzialismo dovrebbe fare inorridire l’Ostellino, che ora lo elogia in funzione antikennedyana: infatti contemplava anche il cosiddetto “salario negativo”). La revisione della figura di Kennedy non è proprio fresca di giornata: il libro di Seymour Hersh, The Dark Side of Camelot è del 1997 e la versione fictional noir, American Tabloid di Ellroy era già uscita nel 1995, per citare solo due lavori come segnalibro in una lunga lista. Ma nel 1962-1963, all’apice del periodo kennedyano io ero lì e posso dire senza timore di essere smentito che, senza la spallata di JFK, difficilmente si sarebbe potuti arrivare alla Great Society di Johnson, cosicché oggi questo discorso appare un po’ stantio.

L’assimilazione tra Obama e Kennedy è poi del tutto fuori fuoco, sia come origine sociale, sia come stile personale e politico: forse l’unica cosa che li accomuna è la circostanza che Kennedy fu il primo cattolico alla presidenza degli Stati Uniti e Obama è il primo presidente minority, perdipiù confermato. Difficile trovare una testimonianza all’American Dream, più indiscutibile e significativa. Forse i soloni italiani, invece di proiettare su Obama i più triti luoghi comuni della nostra cultura, fondamentalmente incapace di percepire e amare il nuovo e, anzi, profondamente “misoneista”, come avrebbe detto Pareto, dovrebbero fare uno sforzo per conoscerlo meglio e capirlo davvero, questo Obama e la cultura che egli rappresenta.

 

Guido Martinotti

 



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