12 dicembre 2012

SEA: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA


La vicenda complessiva dell’alienazione della Sea non è certo edificante, e i suoi sviluppi erano piuttosto prevedibili. La vendita di una prima, consistente quota all’asta avrebbe dovuto far insospettire: come mai non c’erano compratori alla porta, per quel prezzo? La risposta più ovvia apparentemente non è venuta in mente a nessuno: il prezzo era troppo alto, e la F2i di Gamberale ha comprato probabilmente su pressione politica del suo azionista pubblico più rilevante, la Cassa Depositi e Prestiti.

Niente di scandaloso, per carità, ma bisognava trarne le conseguenze: si trattava di un investimento di dubbia redditività. Se la tranche successiva fosse stata di nuovo messa all’asta, F2i era in una posizione favorevole per comperarla anche pagandola cara: poteva diventare socio di maggioranza.

Ma altre pressioni politiche, probabilmente sindacali, hanno fatto preferire una diluizione del controllo di Sea, tentando di collocarla in borsa. Al prezzo richiesto, il mercato ha risposto con un secco “no”. F2i è stata danneggiata: la sua quota è apparsa anche formalmente valere meno di quanto la ha pagata. Se poi si è comportata male, lo deciderà il tribunale. Ma i fatti rimangono.

Ora la provincia di Milano, socia di minoranza di Sea, deve mettere all’asta la sua quota per far tornare i suoi malmessi conti, e F2i può essere davvero interessata a comprare. Il Comune ha solo danni dall’intera operazione, non avendo voluto vendere realmente Sea, per mantenerne in qualche modo il controllo, e forse finirà per perderlo ugualmente. L’assessore Tabacci, che sembra si fosse espresso contro la collocazione in borsa, aveva anche (udite, udite!) accennato all’esistenza di un conflitto di interessi.

E questo è davvero il nocciolo della questione, che vale anche per Atm ecc.: il comune ha due cappelli, in queste gestioni. Dovrebbe occuparsi solo di fornire buoni servizi ai suoi cittadini, a bassi costi. Ma se è anche proprietario, i suoi interessi diventano molto opachi e intrecciati. Per esempio, ha interesse che Sea, un monopolio naturale, faccia dei grandi profitti (cioè rendite di monopolio), a danno dei milanesi e delle imprese che usano gli aeroporti. Nel caso di Atm invece prevale il “voto di scambio” con i dipendenti, le loro famiglie, i fornitori ecc., se non posti dirigenziali… il risultato comunque è che costa ai contribuenti un milione al giorno in sussidi. Tutte queste cose, fin troppo ovvie, si chiamano tecnicamente “fenomeni di cattura”, e uno studioso americano (il professor Buchanan) ci ha anche preso un Nobel.

Ma vediamo ora le condizioni del contesto nelle quali questa vicenda si è dipanata, per capirne forse qualcosa di più.

L'”operazione hub Malpensa”, come molti studiosi del settore prevedevano, si è rilevata un tragico flop: un hub, cioè un aeroporto capace di concentrare voli di corto raggio per smistarli poi su voli intercontinentali, necessita di almeno una di due condizioni: o una compagnia aerea di riferimento molto forte, possibilmente di scala almeno nazionale, o un mercato molto concentrato, per esempio una grandissima metropoli capace di generare molta domanda business (quella più redditizia). Ora, Alitalia, già di per sé debole, aveva il suo hub naturale a Roma, e certo non poteva sostenerne un secondo. La domanda business della pianura padana è dispersa, e di conseguenza servita da molti aeroporti, in quanto è tecnicamente impossibile concentrarla in uno solo. Questi due fattori hanno reso da sempre il ruolo di Malpensa come hub intercontinentale molto incerto, nonostante le promesse di Formigoni e i tentativi di Bersani di limitare il ruolo di Linate.

Un secondo aspetto è la passione della sfera politica italiana per le società miste: si spera di avere sia i vantaggi del voto di scambio ecc. (visti sopra), che l’efficienza che può garantire il privato libero da condizionamenti elettorali. La realtà è l’esatto opposto: il privato, per poter fare profitti nonostante le pressioni pubbliche contro l’efficienza, cerca di aumentare le rendite di monopolio in modo da goderne di una qualche quota (per esempio, evitando gare future). Il pubblico a sua volta è ben felice di farsi corrompere del privato, in modo diretto o più spesso indiretto. Da qui l’avversione anglosassone per le società miste (“ognuno, Stato e privati, faccia al meglio il proprio ruolo”).

La soluzione ovvia è solo una privatizzazione reale, con un forte soggetto regolatore (l’Autorità indipendente invisa a politici e monopolisti), che difenda gli utenti sia da rendite private che da inefficienze pubbliche. Ma nessuno la vuole, naturalmente, e nemmeno il liberale Monti sembra esserci riuscito. Peccato che la giunta Pisapia, su cui tante speranze di rinnovamento per i servizi pubblici erano state riposte, non sembra riuscire a differenziarsi molto in questo campo dall’amministrazione precedente.

 

Marco Ponti

 



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