12 dicembre 2012

libri – ARS CULINARIA


ARS CULINARIA

Dal Piemonte alla Sicilia, i piatti degli antichi Romani sulle loro (e le nostre) tavole

Antoietta Dosi

Giuseppina Pisani Sartorio

Donzelli Editore, luglio 2012

pp.441, euro 24

Mercoledì 12 dicembre, ore 18, il libro verrà presentato presso Palazzo Sormani, sala del Grechetto, via F. Sforza 7, Milano con Anna Pesenti Erminia Dell’Oro, Eva Cantarella

Nihil sub sole novi: stupiremo nello scoprire che Artolaganaus si chiamava l’attuale focaccia, ai tempi dei Romani e pulmentarium ad ventrem corrispondeva alla nostra tisana digestiva, così come il porcellum vitellianum alla porchetta di Ariccia. Per non parlare del ficatum, alias fois gras e relativo patè, che non è francese, perciò, bensì romano. Queste e altre insospettabili curiosità, conosceremo nel sapiente e divertente libro, unico nel suo genere, della filologa Antonietta Dosi, già docente di Lingua italiana presso l’Università di Atene e direttore dell’Istituto italiano di Cultura ad Alessandria di Egitto e da Giuseppina Pisani Sartorio, archeologa e già direttrice alla Soprintendenza ai Beni culturali del Comune di Roma

Il testo, dallo stile accattivante e scorrevole, è una carrellata di 450 pagine nella storia, e nella cultura materiale di Roma antica, corredato da splendide illustrazioni di dipinti e mosaici antichi, ove il cibo è un formidabile indice antropologico, dello stile e dei cambiamenti sociali di una Roma sempre più cosmopolita. Per cercare di ricostruire gli usi alimentari di quei tempi, le autrici si sono avvalse, sia dei reperti archeologici, delle pitture e dei mosaici provenienti dalle abitazioni di Pompei, Ercolano, dalla tomba etrusca Golini I di Orvieto e da altri antichi siti; sia della consultazione delle rare fonti scritte sul tema, in maniera organica, in primis il De Coquinaria di Apicio, vissuto sotto Tiberio nel I sec. d. C., del quale resta un’edizione abbreviata del IV sec. d.C., riscoperta nell’Umanesimo.

Già Catone nel II sec. a.C., nel De agri culinaria, aveva illustrato varie tradizioni della cucina povera dei primi secoli della vita di Roma, come minestre, intingoli e pietanze frugali. In seguito Cicerone, Orazio, Virgilio, Plinio il Vecchio e il Giovane, Seneca, Petronio, Giovenale faranno brevi accenni ai ricchi banchetti della classe dominante, detti convivia, che sotto l’impero vedranno inviti estesi anche a seicento ospiti.

Il nostro vademecum culinario è riuscito a individuare ben 130 ricette antiche e 140 ricette rivisitate, anche se è stato difficile realizzarle nella pratica, perchè mai sono indicati nei testi antichi i dosaggi dei singoli componenti, né si conoscono i sapori dei vini, se non di quelli resinati greci, e non si ha più a disposizione il vasellame adeguato e il sistema di cottura coerente all’antico. All’uso di frutta ed erbe selvatiche dei tempi più antichi, si passa a coltivazioni di cereali quali il farro, l’orzo, il miglio, e solo dal V sec. a.C. farà capolino nell’alimentazione il grano. Il termine frugale, proprio di quella tradizione culinaria, deriva da fruges, frutti della terra.

La base dell’alimentazione era la puls, di farina di farro o orzo, arricchita da semi di lino, antefatto dell’attuale polenta, alla quale si aggiungevano a volte latticini, verdure, legumi, uova, queste come antipasto. E aglio e cipolla, cavolo, un centinaio di erbe conosciute, tra le quali l’ortica, i ricercati funghi, le rape, la carota. Certo solo dopo la scoperta dell’America arriveranno in Europa pomodoro, patata, barbabietola.

I romani dunque in origine erano vegetariani e solo raramente mangiavano carne, (di porco in primis, pecore, capre, pollame, ghiro, cinghiale, selvaggina) utilizzata anche per i sacrifici rituali. Raramente si cibavano di carne di bue, che non allevavano per la macellazione, perchè era adibito all’agricoltura, tenuta in grande considerazione. La carne veniva bollita due o più volte nell’acqua o nel latte, perchè dura e fibrosa, in quanto conservata sotto sale. Per lo stesso motivo, non si usava arrostirla nei primi tempi della Repubblica. Di certo la carne era cibo per classi elevate, che nel periodo dell’Impero giunsero a farne uso smodato. Per monitorare i costumi sfrenati, in origine di influenza greca, sin dal II sec. a.C. furono introdotte le leggi suntuarie, spesso eluse in seguito, come nei banchetti sfrenati del liberto arricchito Trimalcione, descritti da Petronio.

Con l’espandersi della potenza romana e contatti con altre civiltà, iniziò l’importazione di nuovi prodotti. Ecco l’importanza delle spezie provenienti dall’Asia e dall’Africa, per insaporire i cibi, specie le carni bollite, prive in sé di alcun gusto. Per conservare gli alimenti, utile era il pepe, di cui i romani erano ghiotti. E lo zenzero dall’India, i semi di papavero, il laser, resina aromatica dalla Persia, e la cannella e il cumino dall’Asia orientale, il prezioso zafferano dal Kurdistan: occorrevano più di 100 fiori per un etto di prodotto.

I pesci in origine non facevano parte della dieta dei Romani, in quanto terricoli, e solo verso la fine della Repubblica, si affermò ovunque l’uso del garum, un condimento universale, proveniente dall’Indonesia, noto in Grecia sin dal V sec. a.C., ottenuto facendo macerare vari strati di pesce, sale, e spezie per alcuni giorni, dando vita a un alimento simile alla salsa di acciughe, a volte maleodorante. In seguito pesci e crostacei vennero allevati anche nelle piscine private dei ricchi e comparvero allevamenti di ostriche e mitili, insieme a vere industrie di conservazione del tonno, sgombri, sardine, soprattutto in Sicilia . è noto che i romani apprezzavano anche le murene.

Era abitudine diffusa mescolare il dolce, derivante dal miele, e il salato, e si conservavano in salamoia persino le pesche e le albicocche e le ciliege di origine asiatica. E abbondavano nei banchetti frutta come l’uva, i prelibati fichi, le variegate mele, frutta secca e castagne e melograni.

Molto in uso era il rito della trasformazione per imitazione del cibo, una sorta di creazione culturale, per fare apparire ricercati, gli ingredienti più poveri, come l’uso poliedrico della zucca. E i cuochi romani, come gli antichi magheroi di origine greca, si sbizzarrivano rielaborando i menu più strani atti a stupire, come la porchetta cotta, riempita nella pancia di volatili vivi.

Un capitolo a parte merita l’uso dell’olio e delle olive, e la storia della produzione del vino, utile sia per le varie necessità rituali, sia per la tavola. Curioso che le donne non potessero di regola accostarsi a quella bevanda.Anche la birra era apprezzata, di provenienza dalla Gallia e dalla Spagna, ma già conosciuta dagli Egizi.

Nell’impossibilità da dare conto delle centinaia di pagine del libro, non resta che sperimentare sulle nostre tavole questo antico Artusi, le cui ricette provengono dalle varie Regioni italiane, grazie alla competenza e alla curiosità delle due autrici.

questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero

rubriche@arcipelagomilano.org



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