5 dicembre 2012

PRIMARIE IN REGIONE: SILENZIO SULLE PROVINCE?


I due decreti-legge concernenti l’accorpamento e il riordino di province e città metropolitane (n. 95 del 6 luglio e 188 del 5 novembre 2012) hanno il pregio – tra i vari innegabili difetti – di aver cercato di riportare alla realtà una politica frastornata, in materia di ordinamento regionale e locale, da una pesante e prolungata sbornia “federalista”. Una scossa salutare a patto di non prendere alla lettera l’articolato dei decreti – impostati sullo spending review ovvero una logica di “tagli lineari” inevitabilmente indiscriminati – per invece farne occasione di “tagli su misura” per i quali si dovrebbero attivare stilisti politici e sarti amministrativi sul profilo di singole e specifiche fattezze.

Intanto è finito il gioco perverso e mistificatorio di accampare invano l’abolizione tout court di tutte le province allorché, alla chetichella, si è continuato a spacchettarne di nuove e assurde (vedi le ultime ancora nel 2009: l’una senza territorio, l’altra senza abitanti, la terza con triplice capoluogo!). Ora la tendenza è decisamente invertita: le province non si aboliscono ma si riaccorpano, le città metropolitane non si rinviano ma si fondano. Tuttavia per ciascuna di queste ultime (dieci in tutto ma assai disparate: da Milano a Venezia, da Firenze a Reggio Calabria, ecc.) occorre “prendere le misure” e confezionare un vestito adatto. Pertanto occorrerà una legge istitutiva distinta per ognuna, adeguata alle specifiche caratteristiche territoriali e ambientali, economiche e sociali. Cosa impossibile da farsi a livello centrale se mancano iniziativa, conoscenza, studio e progetto espressi dalle rispettive elite dirigenti regionali e locali.

In tale sede occorrerà sicuramente superare limiti e incongruenze dell’attuale impostazione governativa, cominciando dall’assicurare l’elettività in primo grado degli organi assembleari che altrimenti, se riprodotti in secondo grado dai Comuni, saranno destinati a riprodurre stanchi e inutili “tavoli”, senza incidere sulla situazione pressoché anarchica generata da un concetto distorto di autonomia, intesa come “padroni in casa propria”. O le nuove istituzioni avranno autorevolezza e cogenza nelle poche ma precise materie di cui saranno responsabili, o si rischia di ricreare entità-ombra, pletoriche e posticce.

Per superare la crisi presente occorrerebbe dunque farne occasione di semplificazione strutturale e razionalizzazione funzionale; non solo di tagli e risparmi, pur doverosi, dei non sempre simbolici “costi della politica”. Ma qui si evidenziano le contraddizioni. Nelle campagne per le “primarie” hanno sin qui campeggiato giuste istanze di dimezzamenti e soppressioni per parlamentari, finanziamenti ai partiti, vitalizi (questi ultimi però solo dalla “prossima” legislatura, col rischio insito nel promemoria scritto “domani smetto di fumare”). Sul dimezzamento delle province, assicurato grazie al “lavoro sporco” del governo tecnico, invece fin’ora o assordante silenzio o tonanti proteste campanilistiche proprio per difendere evidenti errori e fallimenti, come nel caso che ci interessa più da vicino riguardante la (ex) Monza & Brianza.

Infatti ogni casalinga sa bene che per confezionare l’abito metropolitano sia in primo luogo necessario misurare la stoffa occorrente, quindi decidere dove comincia e dove finisce la corrispondente area. Cosa su cui invece tacciono inspiegabilmente sia il sindaco di Milano, pur destinato a presiedere pro-tempore la relativa nuova città, sia l’assessore precipuamente addetto (ma vorrei essere al più presto essere smentito). Come pure i sindaci dell’hinterland, per i quali – soprattutto se si uniscono a quelli dell’operosa Brianza – la nuova istituzione, policentrica ed equilibrata, potrà avere voce in capitolo su temi decisivi quali assetto territoriale, mobilità, ambiente, grandi infrastrutture. Infine i candidati alla guida della Regione: questo tema sarà ancora una volta sottovalutato o invece a ragione considerato?

Tutto questo nell’ipotesi del tutto auspicabile che l’ultimo decreto venga convertito in legge senza significative modifiche. Altrimenti si tornerà al “campo delle cento pertiche” come già accaduto più volte nel ventennio. Ma l’esigenza di uscire dalla crisi non lo permette più. Le alternative sarebbero catastrofiche: aumento dell’IVA piuttosto che balzi dello spread. Però, come detto, il decreto non basta. Occorre avere chiaro almeno lo schema di un nuovo disegno istituzionale per la Lombardia, come ho cercato di esporre sommariamente su ArcipelagoMilano (n. 29 del 5 settembre, ed altri) o quantomeno non ignorare i mezzi che dovranno supportare gli obbiettivi programmatici (lavoro e ambiente, sanità e istruzione, giovani e anziani senza dimenticare le donne, ecc) che costellano ogni campagna elettorale.

 

Valentino Ballabio

 

 



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