5 dicembre 2012

DONNE E POLITICA. NON FACCIAMONE UNA SPECIE PROTETTA


Alla fine delle primarie Laura Puppato ha avuto la visibilità che in un primo momento era mancata alla sua campagna elettorale. E ora tocca ad Alessandra Kustermann che si prepara a un altrettanto impegnativo confronto. Questi inizi di nuove avventure politiche che hanno due donne per protagoniste danno l’occasione per riflettere: non tanto su di loro, sulle scelte che hanno fatto e faranno; quanto su ciò che intorno a loro si muove. Intorno a loro e al più ampio tema della politica (e delle politiche) di genere. Da un po’ di tempo mi chiedo se questa tentazione da parte dei media, dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori di mettere la presenza femminile quasi “sotto tutela” – non solo in politica, anche in altri ambiti per tradizione difficili o addirittura off-limits – sia davvero il sistema migliore per incoraggiare e avvantaggiare l’impegno delle donne.

Io credo di no. E, a costo di apparire a qualcuno come una “donna maschilista”, mi ribello alle quote rosa imposte come un dovere civile e soprattutto trasformate, mai come in questo periodo, in slogan elettorali. Ormai non c’è più un candidato – aspirante sindaco di un piccolo comune o futuro premier – che non esibisca come punto forte del suo programma, fiore all’occhiello e bandiera, la promessa solenne di farsi garante della partecipazione femminile. Così le liste elettorali devono essere (per forza) fifty-fifty, le giunte che amministrano le città pure.

Andrebbe anche bene, dopotutto, a patto che queste scelte non finissero per diventare un dogma, svuotandosi di significato e sostanza, che non si riducessero, con esito fuorviante, a una sorta di tributo da pagare per ottenere applausi e consensi, per allinearsi a un modo di pensare che “fa colpo”, o magari semplicemente buona impressione sull’elettorato. Tutti i politici sono davvero oggi tanto convinti che le rappresentanti del gentil sesso siano brave, utili e necessarie nei ruoli chiave? O ripetono tutti più o meno le stesse cose perché è una mossa politically correct? Ammetto senza pregiudizi entrambe le possibilità, ci sarà chi è in buona fede e chi no. Come per ogni tema di confronto, a seconda dei personaggi coinvolti, ci saranno quelli portati a cavalcare l’onda a proprio uso e consumo e altri che ci credono veramente… Comunque, paradossalmente, in tutti gli incontri ai quali ho assistito in vista delle primarie del centrosinistra, chi ha calcato meno su questa retorica di genere è stata proprio la Puppato.

Una cosa è certa, il soggetto si presta a strumentalizzazioni e le donne per prime dovrebbero essere vigili e severe al riguardo, non cadere nella trappola. Toccherebbe a loro ribellarsi all’idea che a una collega candidata venga attribuito un valore in sé in quanto appartenente all’universo femminile, perché con simili premesse inevitabilmente finiscono per passare in secondo piano esperienze, capacità e carisma personale. Non trovo che invitare una donna a votare per un’altra donna sia un buon argomento, in nessun caso: è innanzitutto una persona, quella da scegliere. È innegabile che spesso, a parità di merito, noi incontriamo maggiori difficoltà di un uomo a emergere e a vedere riconosciuti i nostri sforzi; e che ci troviamo, per varie ragioni, nella condizione di dover dimostrare qualcosa, di dover giustificare quanto ottieniamo; mentre per un maschio è di solito tutto molto più scontato.

Non sono però affatto convinta che le quote rosa, in politica come altrove, possano rappresentare la soluzione a tutto questo. Ne sento parlare fin da quando andavo al liceo: un’espressione mediatica d’effetto che trovo già di per sé abbastanza ridicola, un condensato di luoghi comuni; anche poco rispettosa, in un certo senso, perché spinge automaticamente pensare a quelle specie che devono essere protette in quanto in via d’estinzione. “Quote rosa” esprime un modo di ragionare che guarda indietro e non avanti, fa riaffiorare quel senso di esclusione che ha accompagnato la condizione femminile nella storia. Non è che le discriminazioni siano finite, anzi; ne abbiamo testimonianze ogni giorno in molte parti del mondo lontane e anche in situazioni più vicine. Non credo però che questo atteggiamento condiscendente (di cui tra l’altro sono gli uomini i primi ad avvantaggiarsi) possa indurre passi avanti nella questione. Le donne non sono, non devono farsi considerare, una minoranza e il vero rispetto nei loro confronti, la vera sfida, sarebbe quella a non discriminarle neppure alla rovescia. Per essere davvero credibili devono superare la sindrome dell’esclusa e dare per scontato che hanno le stesse opportunità, pari opportunità di un collega/avversario dell’altro sesso. In alcune professioni l’avanzamento femminile, sia in termini numerici che di incarichi, è stato esponenziale e i rapporti di forza, se così vogliamo chiamarli, si sono addirittura invertiti. Eppure ho l’impressione che le tracce del passato siano più presenti nei giudizi e nelle valutazioni di quanto non lo siano nella realtà dei fatti.

Di come si tenda a semplificare il problema nel dibattito politico già si è parlato; ma gli stereotipi sono sempre in agguato anche quando noi donne parliamo di noi stesse e confesso che sono piuttosto scettica rispetto al fatto che le nostre esigenze e interessi siano considerate esclusivamente (o quasi) autointerpretabili. Stesso scetticismo quando sento parlare di “scrittura al femminile”, “cinema al femminile” o di “impresa al femminile”, perché dietro queste etichette riscontro tante eccezioni, sensibilità che si mescolano e individualità che parlano linguaggi universali dove le distinzioni di sesso passano decisamente in secondo piano. Trovo riduttive quelle tavole rotonde – a sfondo politico e non – dove dieci donne, uomini rigorosamente esclusi, discutono di problematiche ritenute comprensibili solo da un pubblico monogenere.

Qualche settimana fa su ArcipelagoMilano Elena Sisti elogiava (giustamente) Laura Puppato scrivendo che una caratteristica tipicamente femminile è quella di evitare lo scontro e mantenere i toni bassi. Ebbene, dissento. Perché per una, dieci, cento “vere signore” che esprimono le proprie idee pacatamente e con intelligenza, ce ne sono almeno altrettante che si accapigliano, scadono nell’offesa dell’avversario, strillano nei talk show. Quanto e più dei maschi. Insomma, ci sono le Laura Puppato e le Daniela Santanché e le visioni del mondo, della vita, non necessariamente coincidono con il genere. Credo invece che ogni donna, nell’intraprendere un percorso politico, dovrebbe puntare sulla propria unicità come persona, e nello stesso tempo sulla propria capacità di avvicinarsi agli altri, senza differenziazioni. Di ascoltare, comprendere, sintetizzare le soluzioni.

Ho in mente quella scena del film “The Iron Lady” in cui Margaret Thatcher, eletta alla Camera dei Comuni, arriva per il suo “primo giorno” sicura e decisa nell’austero tailleur ed è accolta dal silenzio gelido e diffidente di centinaia di colleghi in giacca e cravatta che la guardano come se fosse un’aliena. Era il 1959, e probabilmente allora le quote rosa avrebbero avuto davvero un significato forte, sarebbero state il mezzo “tecnico” per accelerare un processo che ha invece impiegato decenni per arrivare a compimento. Oggi, in Europa e in Italia, le cose stanno per fortuna in modo diverso e solo l’idea vaga di una sorta di corsia preferenziale andrebbe per principio respinta. Soprattutto per rispetto nei nostri confronti.

 

Eleonora Poli



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