20 aprile 2009

LA GIUSTIZIA NELLA PATRIA DI BECCARIA


E’ proprio di Milano non coltivare nelle cose e negli avvenimenti il flusso e il senso della propria storia, di cui si occupa, di solito, più con l’andatura di un amabile amarcord che con l’impegno di una riflessione critica. Così, fra le tante cose della loro storia cui i milanesi non hanno fatto abbastanza caso sta la circostanza che nella stessa città e dallo stesso humus culturale siano emerse due realtà tanto profondamente lì radicate quanto contraddittorie: il processo agli untori e la “Storia della colonna infame”, un obbrobrio giudiziario e la sua critica colta e veemente. Se a questa irrisolta contraddittorietà si fosse riflettuto con attenzione, probabilmente ci si sarebbe accorti di almeno un paio di particolari degni d’attenzione e buon punto di partenza di importanti sviluppi culturali e civili.

Perché gli untori? Perché il buon senso pratico dei milanesi richiede sempre – e questo è un tratto assai positivo del loro carattere – un perché delle cose, di ciò che accade. Se c’è la peste, questa da qualche parte deve pur venire: in qualche altro fatto concreto, non metafisico, e in certa misura sperimentabile, constatabile, deve pur avere origine. Dunque, cerchiamo la cosa che nuoce (l’unguento), cerchiamo chi la porta fra noi, sottoponiamo costui a un processo – poiché siamo gente civile – e puniamolo a dovere.

Bene. Ma perché proprio gli untori? Perché, a conti fatti, rappresentavano una soluzione abbastanza facile. Se c’è un unguento, c’è qualcuno che lo spalma e lo sparge, e questo qualcuno bisogna agguantarlo al più presto. Al più presto, appunto: se c’è, e c’è, un colpevole, questo deve venir fuori rapidamente ed esser consegnato alla giustizia. E qui compare un altro tratto, questa volta negativo, del carattere milanese: la fretta nel giudizio, la diffidenza per le complicazioni, l’esigenza di avere a portata di mano soluzioni (apparentemente) credibili in tempi ristretti. E’ così, allora, che nel tessuto di un processo pur non breve, come fu quello agli untori, s’insinuò il germe, altrettanto pestifero, dell’accoglienza giudiziaria verso il pregiudizio, della noia verso il dubbio, del fastidio nervoso verso la verifica controfattuale. E ciò si ripetè, sia pure in un contesto enormemente diverso di pubblica tragedia, nel disastro di piazzale Loreto. Non solo: quella sciagurata fretta, escludendo altresì la meditazione accurata e sofferta, non fa penetrare nella coscienza collettiva nemmeno le ribellioni che dal suo stesso grembo scaturiscono con la forza dell’intelligenza e della consapevolezza etica. E così i due atteggiamenti tipici del modo milanese di intendere la giustizia restano contrapposti, senza dirigersi verso una sintesi che rappresenti il superamento di una contraddizione culturale tanto vistosa. Manzoni incise poco con la sua analisi dei fatti della colonna infame; e Beccaria, prima di lui, dovette pubblicare la sua opera fondamentale a Livorno: e non credo che fosse solo a causa dell’Imperial Regio Governo, padrone di Milano.

***

Se ora faccio un accenno alla vicenda di Mani Pulite qualcuno penserà: ecco l’ennesimo attacco revisionista contro quella stagione. E invece no, non sta qui la ragione di un pur necessario richiamo. L’evocazione s’impone perché, per l’ennesima volta da quella stagione sono anche derivate utili iniziative nell’organizzazione giudiziaria milanese ma non una sintesi di metodo
che le rendesse realmente fruttifere per la civiltà penalistica della città e del Paese intero.

Certamente Mani Pulite non si affrancò del tutto da momenti, anche gravi, di frettolosità negli accertamenti, ma questo non valse a toglierne il valore di operazione giudiziaria indispensabile allo scioglimento di nodi del costume politico che avviluppavano, soffocandolo, l’intero Paese: se ebbe un torto grave, Mani Pulite lo ebbe altrove, nell’aver guardato e colpito da una parte sola dello spettro politico lasciandone colpevolmente indenne la parte opposta (ed anche qui si manifestò una lacuna di sensibilità che né la città né il Paese hanno mai saputo colmare). Ma qui a me interessa un’altra cosa: e cioè che da quell’ingente esperienza e dai suoi limiti non è derivata una crescita di consapevolezza e di tecnica nel modo di fare giustizia. Milano, come sempre, non tesaurizza i contenuti etici, civili e politici dei momenti alti cui spesso nella sua storia ha dato origine. Ne ricordiamo qualche esempio paradigmatico, allargando per un istante lo spettro degli eventi sull’arco degli ultimi due secoli? Non mise a profitto l’enorme opportunità del trovarsi capitale della Repubblica Cisalpina; non trasse il vantaggio politico offertole dall’unica guerra risorgimentale vinta senza l’aiuto di forze straniere; non fece dell’industrializzazione uno strumento di potere e d’interlocuzione politica di livello internazionale; ed anche dell’episodio fascista lasciò che si disperdessero le sottostanti istanze modernizzatrici in una tragicommedia autoritaria presto emigrata altrove e precipitata nella disperazione.

Così, tornando alla più limitata ottica della giurisdizione penale, quest’ultima a Milano ha saputo darsi sul piano organizzativo gruppi di lavoro anche ben congegnati e dotati di ottime intenzioni (i pools specializzati della Procura) ma non sufficienti a fornire alla città l’occasione di ripiegarsi a riflettere sui propri mali per promuoverne il superamento. Due vicende esemplari: quella del “pool soggetti deboli” e quella del pool finanziario.

La prima, centrata sulla tutela delle vittime di reati sessuali e di violenze intrafamiliari, ha conosciuto sullo scorcio degli anni novanta del novecento una fase di accentuato attivismo presto scivolata verso derive persecutorie in un clima da caccia alle streghe che ne ha segnato in notevole misura l’appannamento e la sostanziale inefficacia (oggi non se ne sente più parlare). La seconda, segnata certo da incongrue povertà organizzative e da difficoltà ambientali particolarmente grevi – ancora una volta i limiti culturali della città secernono un’atmosfera ferocemente avversa all’intromissione della giustizia penale nelle faccende finanziarie e imprenditoriali – non riesce a proporre un modello di legalità normativa e valoriale dell’economia privata capace di rendere alla città e al Paese quell’insieme di indicazioni, segnali, e regole che la giustizia americana riuscì a dare alla nazione intera dopo il caso Enron: complice, in questa lacuna, l’incerta oscillazione di Tribunali e Corti fra appiattimento sulle posizioni del Pubblico Ministero e negazione radicale di tali posizioni, oscillazione che fa venir meno, rispetto tali posizioni, quel sapiente vaglio critico che contribuirebbe a far crescere la coscienza e la funzione pubblica della comunità cittadina. Giustizialismo e garantismo, insomma, restano atteggiamenti opposti, statici e immobili, privi di quella difficoltosa e talvolta dolorosa dialettica che conduce, come si diceva più sopra, alle sintesi superiori.

Qual è la sintesi mancante? Sarebbe doveroso indicarla, a questo punto. Ma se io stesso la possedessi in prima persona sarei in grado di fornire alla comunità un servizio prezioso di cui la chiave non è, invece, ancora disponibile. Credo però di poter indicare una componente primaria di ogni sintesi futura, componente di metodo ma anche di sostanza, diciamo così, ideologica. Alla cultura italiana manca una particolare coordinata rispetto al modo di intendere la legge: quella che induce a considerare quest’ultima non come strumento di lotta (anche politica) ma, al contrario, come sede delle mediazioni fra spinte opposte presenti nella società. Esercitare la giurisdizione non deve essere inteso come atto di parte o come crociata per far vincere un principio, un’idea, ma come azione affermativa di un punto mediano già rintracciato, almeno tentativamente, proprio dalla legge di cui si promuove l’applicazione: cercando, ove mai la legge stessa mancasse del necessario equilibrio, l’interpretazione più riequilibrante possibile del suo dettato. Questa fatica, non semplice e non breve, è lo specifico politico – cioè attinente al dirigere la comunità civile – proprio e peculiare della giurisdizione, uno specifico che non nega la politicità del ruolo giurisdizionale ma ne detta i limiti nel solco dell’ennesima parafrasi Klausevitziana: continuazione della politica con altri mezzi. Quelli, nella specie, della legge come strumento di mediazione.

Le vicende della giustizia milanese hanno avuto risonanza mondiale ma non hanno prodotto un percorso in ascesa della sua coscienza giurisdizionale. La distanza fra prassi e riflessione culturale sulla prassi resta ancora, e come sempre, piuttosto ampia. Il processo di sintesi non è concluso. Forse, non è neppure iniziato.

Renato Palmieri



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