20 aprile 2009

IO, ARCHITETTO PENTITO


Gli architetti e i progettisti tutti, a fronte delle gravi emergenze che stanno investendo il nostro pianeta e in misura ancora più acuta il nostro paese, devono decidersi a fare una riflessione di portata generale per convertire radicalmente il proprio approccio alla progettazione e sviluppare un linguaggio architettonico in grado di interpretare, assumere e applicare i principi della sostenibilità.

Quando dichiaro di essere un architetto pentito voglio esprimere proprio questo mio rinnovato atteggiamento, consistente nel fatto che ogni volta che traccio una linea su un foglio e sullo schermo del mio computer, mi interrogo sui danni che sto provocando e su come quella stessa linea dovrebbe invece essere tracciata per minimizzarli o, meglio ancora, per fornire all’edificio che progetto e all’ambiente nel suo complesso risorse a favore della sostenibilità.

Quindi il mio pentimento non è affatto un atto di rinuncia, ma un impegno sempre più determinato a esercitare una progettazione consapevole e responsabile.

Faccio questa precisazione perché sono costretto a constatare nell’atteggiamento di molti colleghi una superficialità e un opportunismo che non lascia presagire alcunché di buono.

Infatti parlano tutti di ecosostenibilità e risparmio energetico, ma nella maggior parte dei casi le soluzioni progettuali si risolvono semplicemente nell’aggiunta di volta in volta di materiali isolanti, collettori solari termici o fotovoltaici, pompe di calore, pannelli radianti, sonde geotermiche e altre tecnologie che consentono una maggiore efficienza energetica degli impianti e dei singoli componenti, in genere applicati a edifici del tutto banali, senza investire direttamente la concezione tipologica, le caratteristiche insediative dell’intervento né tanto meno la loro forma, che è invece sempre più caratterizzata da stravaganze e leziosità formali.

Ma anche committenti e politici hanno grandi responsabilità, perché non sono ancora sufficientemente lungimiranti, sensibili alle istanze ambientali e capaci di comprendere il valore, anche in termini di ritorno degli investimenti in qualità ambientale, efficienza energetica e convenienza economica nel medio termine.

Le stesse cooperative edilizie, rosse o bianche che siano, svolgono ormai sostanzialmente una attività di carattere speculativo, avendo totalmente rinunciato alla funzione sociale che ha prodotto in passato i più significativi esempi di edilizia pubblica.

Tutte comprese dalla loro attività imprenditoriale, sono sorde a qualunque proposta innovativa, tanto meno se orientata a offrire interventi edilizi a proprietà indivisa, i cui alloggi non possano essere immediatamente posti sul mercato immobiliare ma essere invece affittati.

Assieme ad alcuni colleghi del Politecnico e con la collaborazione dell’ENEA (Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) mi sono impegnato, fin da quando di ecosostenibilità neppure si parlava, a studiare appropriate tipologie abitative con una adeguata dotazione di attrezzature e spazi collettivi, conformate in modo tale da integrare nel proprio organismo i più avanzati sistemi attivi e passivi di utilizzazione delle fonti rinnovabili e di risparmio energetico, per ottenere prestazioni da Zero Energy Building, oltre a garantire, per le loro intrinseche caratteristiche costruttive, grande affidabilità antisismica e antincendio.

Il progetto, che si può vedere nel sito www.emiliobattisti.com, si è avvalso della collaborazione scientifica di alcuni dipartimenti di ricerca del Politecnico di Milano e della University of the Western Australia, ed è stato sviluppato in versioni distinte, come residenza in base agli standard abitativi dell’edilizia pubblica e come pensionato universitario per ospitare gli studenti delle università milanesi, secondo la normativa della legge 338/2000 per il finanziamento di queste strutture.

Ebbene, per quanto impegno si sia posto nel far conoscere i nostri progetti presso le cooperative rosse e bianche, avendo sollecitato o avuto incontri con i loro presidenti, ma anche con Assimpredil e ANCE, con la Fondazione Housing Sociale della Cariplo, con gli assessori alla casa e all’urbanistica del Comune di Milano e al piano casa della Provincia, e ancora con imprese e immobiliari quali Bastogi ed EuroMilano, che comprende al suo interno in un virtuoso connubio Esselunga, Banca Intesa e Legacoop; ma anche nel settore delle recenti iniziative di cohousing non si è potuto ottenere altro che qualche complimento per l’interessante lavoro svolto.

Ma ci si è spinti anche a Reggio Emilia, in quello che è sempre stato considerato il paradiso dell’edilizia pubblica, dove abbiamo riscosso anche i complimenti del presidente dell’ACER, la locale agenzia per la casa, e la garbata rinuncia a impegnarsi da parte di UNIECO, grande società cooperativa emiliana che opera a scala nazionale.

In molti di questi incontri si è avuta la netta sensazione, se non la prova concreta, dell’esistenza di una cupola che a Milano governa tutte le iniziative imprenditoriali e che le ripartisce e assegna in funzione dalle appartenenze politiche sulla base di un manuale Cencelli dell’edilizia.

E ciò si manifesta nelle risposte elusive, nel ricorrente scaricabarile, nelle allusioni neppure troppo velate che se non si è del giro non ci sono possibilità e, nei casi in cui s’è creata maggior confidenza, nel suggerimento di condividere il progetto con qualche collega ben introdotto presso la Compagnia delle Opere.

In questa situazione non credo proprio che ci siano reali prospettive di sviluppo per una Milano sostenibile, né tanto meno spazio per dare senso e esito al mio pentimento di architetto.

 

Emilio Battisti

 



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