21 novembre 2012

I VOLONTARI DI OBAMA: COME SI VINCE


Alle otto di una mattina grigia e fredda, solo il giorno dopo che la luce è ritornata in gran parte di New York, ancora provati da una settimana molto difficile, ci ritroviamo in più di cento su un autobus in partenza per Philadelphia. Siamo tutti volontari della campagna per la rielezione di Barack Obama. In verità io sono una volontaria imbucata in questa spedizione per curiosità, per passione politica e per onorare il fatto che sono una sociologa.

C’è Sylvia, giovane militante del partito democratico, e c’è John di Occupy Wall Street che si alternano a spiegarci cosa dobbiamo fare una volta arrivati a Philadelphia, ma soprattutto, come dei veri coacher, a rafforzare il coinvolgimento dei volontari. “Sorridete, sorridete sempre quando parlerete con le persone. Nel vostro sorriso e nel vostro viso gli elettori vedranno il viso di Obama”, ci incita Sylvia – mentre John applica la tecnica del “megafono umano”: tutti ripetono le sue parole in modo che anche quelli in fondo al pullman sentano, e si realizzi così un coinvolgimento. Durante l’occupazione di Zuccotti Park la polizia aveva proibito l’uso dei megafoni, e i manifestanti in prima fila ripetevano a quelli dietro di loro ciò che sentivano e questi agli altri ancora più dietro e così via, praticando una nuova e antica oratoria e coinvolgendo tutti negli interventi.

Nuove e vecchie pratiche di comunicazione politica si alternano così nel nostro pullman. In due ore di viaggio veniamo allenati alle vecchie tecniche di vendita, come quella del sorriso o quella che consiglia di chiamare il proprio interlocutore con il nome di battesimo per stabilire familiarità, e alle nuove forme di coinvolgimento. “Dite quali sono le vostre motivazioni, dite perché siete qui – ci incita John – la motivazione personale è la risposta più importante che possiate dare a chi si mostra indeciso. Nessuno vuole sentire da voi una lezioncina politica, mostrate il vostro coinvolgimento”.

Mentre Romney ha speso la maggior parte dei finanziamenti per comprare spazi pubblicitari nelle televisioni, Obama ha investito soprattutto per organizzare gruppi di volontari come questo, noleggiando autobus, offrendo bottigliette d’acqua, orribili biscottini e caffè. La sua forza è stata tutta qui: aver scelto la partecipazione dal basso, la condivisione.

Chi sta seduto in questo autobus ed è pronto a camminare per tutto il giorno non è un militante, ha scelto di esserci perché ha le sue ragioni per mobilitarsi. “Sono qui perché sono una donna” grida una voce dal fondo. “Sono qui per proteggere i giovani – dice una signora avanti negli anni – e perché ho fatto la campagna per Bob Kennedy quando ero ragazza”. “Dobbiamo difendere la Corte Suprema”. “Voglio l’assistenza sanitaria”. “Ho un figlio piccolo e malato, sono senza lavoro e ho bisogno dell’assistenza sanitaria. Se vince Romney chi si ammala sarà invitato a morire in fretta e a togliersi dai piedi”. Nessuna risposta sa neanche lontanamente d’ideologico: ognuno ha i suoi buoni e pratici motivi.

Altre voci si alternano in un crescendo di entusiasmo che coinvolge anche chi, come me, non voterà. Ci viene poi distribuito un foglio con le domande che dovremmo fare agli abitanti del quartiere cui verremo assegnati, e che sono stati individuati come elettori di Obama. Il nostro compito sarà quello di ricordarglielo, di stimolare gli indecisi, di aiutare chi non sa dove o come votare. Dobbiamo coprire ciascuno un quartiere. To canvas dicono loro con un neologismo entrato a far parte del linguaggio politico dei democratici. Canvas – traduzione letterale: tela. Ma significa al tempo stesso ricoprire, tessere, fare rete appunto. È nei quartieri più poveri e degradati che andremo, ed è qui che molti, per lo più neri e ispanici, pur essendo a favore di Obama, non conoscono bene le procedure di voto.

Siamo quasi arrivati, dopo due ore di viaggio e l’ultima raccomandazione del giovane militante di Occupy è: “Have Fun“, divertitevi, è questo che fa la differenza. Il fatto che voi vi divertiate facendo lavoro politico”. Parole sante – mi viene da pensare, soprattutto per chi come me ha esperienza di militanza di sinistra all’insegna dell’autoflagellazione e della seriosità. Sembrano sempre ingenui nel loro entusiasmo questi americani, ma forse dovremmo imparare qualcosa da loro. Coinvolgimento contro burocratizzazione ad esempio, divertimento contro noia, responsabilizzazione contro gerarchie.

Eccoci a Sud Philadelphia, a gruppi veniamo fatti scendere in diversi punti. Al mio gruppetto tocca una chiesa battista popolata quasi esclusivamente da donne nere, dal fare molto deciso. Ci mettono a disposizione caffè bollente e danno a ciascuno di noi, suddivisi in coppie, gli indirizzi a cui dovremmo bussare.

Sono le 11, fa un freddo tremendo, ma ci verranno a riprendere solo alle 16,30, quando avremmo finito il nostro lavoro. Sono in coppia con Liz, settanta anni, allegra, entusiasta e instancabile, quella della campagna di Bob Kennedy. Lei, esperta di questo tipo di lavoro, si è portata una banana, una busta di biscotti al burro, un pacco di uvette e uno di salatissimi cracker. Io non ho nulla, m’illudevo che avremmo trovato qualcosa da mangiare, un coffee shop, un deli. “Ma stai scherzando? – dice Liz – in questo quartiere non c’è nulla, è una zona poverissima, tutt’al più troveremo un supermercato”. In pochi minuti mi rendo conto che ha ragione. Il quartiere è desolato, degradato, spazzatura dappertutto e noi due siamo i soli esseri di pelle bianca, e siamo anche donne, ma per fortuna abbiamo anche i capelli bianchi. E poi, ce ne accorgiamo subito, a proteggerci c’è il distintivo di Obama che abbiamo appuntato sulle nostre giacche a vento e i colorati manifesti con il volto del presidente che ci trasciniamo fra le braccia. Chi ci sorride, chi ci chiede informazioni, chi ci prende bonariamente in giro, facendo finta di voler votare per Romney, chi ci applaude e chi ci manda al diavolo sicuro “che tanto non cambierà nulla”.

Le case sono tutte a un piano con una veranda in legno all’ingresso. Alcune sono sgangherate e sporche, altre sono state ridipinte, con i fiori di plastica alle finestre, le maniglie lucidate, in un tenace tentativo di decoro. Liz, che nella precedente campagna per Obama ha fatto lo stesso lavoro nel Bronx mi dice che non ha mai visto tanto degrado e tanta miseria come in queste strade di Philadelphia. “Non posso sopportare che nel mio paese ci sia tanta differenza fra chi ha tutto, più di tutto e chi non ha niente”.

Dopo due ore di cammino sempre più infreddolite, anche se Liz, mi ha dotato di un suo berretto da sci, dobbiamo fermarci per andare in bagno. Si, ma dove? La partner americana eccessivamente fiduciosa nella solidarietà decide di chiedere all’unica banca che abbiamo visto. Ovviamente in banca ci negano l’accesso ai bagni, ma una signora nera, vedendoci in difficoltà, ci indica al di là della strada, un negozio di manicure, di cui lei è cliente. “andate la, è pulitissimo, e dite che vi mando io, sono Ellen”. Evviva le donne! Attraversiamo ancora incredule di trovare un negozio di manicure in questo quartiere, entriamo e subito una giovane cinese ci indica il bagno. Piedi e mani nere con unghie dipinte di rosa brillante rallegrano i nostri occhi, mentre veniamo accolte con simpatica indifferenza. Decidiamo allora di fermarci un attimo in questo “paradiso delle signore”e di divederci qui il cibo.

Riprendiamo il cammino e ci addentriamo in strade dall’aspetto ancora peggiore. Porte divelte, gatti che squarciano sacchi di spazzatura, solo giovani maschi disoccupati in giro. Le case sembrano abbandonate, unico segno di vita sono i giornali del mattino lasciati davanti alle porte. Chi ha un lavoro ritornerà solo a tarda sera. Attacchiamo i nostri manifesti, su cui è indicato il seggio dove gli abitanti di quella strada dovranno andare a votare, alle maniglie delle porte, quando ci sono, o li lasciamo sulle verande schivando i gatti. Comincio a essere inquieta, mentre Liz è determinata a portare a compimento il lavoro. Abbiamo preso un impegno. Dobbiamo divertirci, ma stiamo facendo una cosa seria.

Ma ecco che, all’improvviso, una macchina nera si accosta a noi, ho un momento di paura: il finestrino si abbassa, temo un insulto o peggio. Ma un viso sorridente di una giovane donna nera si affaccia e una voce sorpresa e divertita mi dice “Accidenti, sei proprio una signora sofisticata!”. Mi viene da ridere, solo ora mi rendo conto quanto la mia presenza, il mio essere donna bianca e ben vestita nonostante il ridicolo cappellino da sci arancione debba apparire incongrua.

Sono le quattro, abbiamo finito, abbiamo “canvas” trecento indirizzi, l’appuntamento è a un crocevia, davanti a una pompa di benzina. Ma non c’è nessuno. È sempre Liz che prende in mano la situazione, si mette in contatto con gli altri e mi dice che dobbiamo aspettare fiduciose. Mi accendo una sigaretta sicura di poterlo fare qui, dove tutti fumano, lontana dalla salutista New York. Questo quartiere comincia a piacermi. Finalmente arrivano anche gli altri. Uno dei volontari decide di non ritornare a New York vuole fare campagna ancora e dare una mano anche domani, giorno delle elezioni. Evidentemente si diverte molto seriamente. Nel pullman di ritorno i nostri coacher ci chiedono di raccontare le nostre esperienze. Ma anche se mi sono molto divertita sono stanca morta e sento che la mia europeità ha il sopravvento, ho bisogno di prendere le distanze da tutto questo coinvolgimento. Gli altri raccontano, entusiasti e apparentemente neanche stanchi. Con mio stupore s’impegnano a rifare lo stesso lavoro l’indomani. “Quello che abbiamo fatto oggi, il nostro volontariato – dice qualcuno – non è utile solo per Obama, ma ha creato una rete, una condivisione che saranno molto utili anche in futuro”.

La sera delle elezioni sono in casa di Liz e quando arrivano i risultati della vittoria di Obama in Pennsylvania urliamo di gioia, di nuovo mi sento anche io parte di. Non ho votato, ma ho visto come si costruisce una vittoria e come si fa rete.

 

Gabriella Turnaturi

 

 



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