21 novembre 2012

musica


SCHIFF E JAIS

È stata una settimana musicalmente molto intensa, quella appena trascorsa, con concerti ogni sera e programmi strepitosi, e noi ne abbiamo seguiti due: la prima puntata dell’integrale delle Sonate di Beethoven, eseguite da Andràs Schiff per la Società del Quartetto al Conservatorio, e una edizione “filologica” del Messiah di Händel, diretta da Ruben Jais all’Auditorium.

Cominciamo dall’integrale delle Sonate beethoveniane (il “Nuovo Testamento”, secondo la deliziosa definizione che ne ha dato il grande Von Bülow), annunciate da alti squilli di tromba come se fossero una grandissima novità per Milano (ma Schiff le ha eseguite per le Serate Musicali, sempre al Conservatorio, solo una decina di anni fa) con l’uscita in contemporanea di un libro in cui Martin Meyer, giornalista della Neue Zürcher Zeitung, pone domande al nostro pianista e questi – sonata per sonata e pagina dopo pagina – le chiosa e le commenta sicché può essere letto solo mentre le si ascolta, o quanto meno avendo la partitura in mano e sapendola leggere.

Schiff è sicuramente un grande pianista al quale siamo enormemente affezionati, se non altro per la costante presenza nella nostra città sempre con programmi intelligenti e stimolanti; è un grande cultore di Bach (di cui ha inciso l’opera omnia scritta per tastiera – e cioè per organo, clavicembalo e fortepiano, poiché il Kantor di Lipsia non faceva molta differenza – ed eseguita non “sul” pianoforte ma “su diversi” pianoforti, come fa sempre, anche in concerto) ma anche di Mozart e soprattutto di Schubert, delle cui Sonate compiute e incompiute ricordiamo un’altra esecuzione integrale, di vent’anni fa, sempre al Conservatorio e sempre per le Serate Musicali. Il suo fascino consiste principalmente nella precisione, nella concentrazione, nella lievità e omogeneità del suono, sopratutto nella capacità di penetrazione del pensiero musicale; in una parola Schiff è l’opposto esatto della superficialità.

Ma possiamo fare delle irriverenti comparazioni con altri grandi pianisti? Per esempio, per stare all’attualità, possiamo dire che Schiff è il contrario di Daniel Barenboim, cui non si può negare di essere grande musicista nell’animo e soprattutto un grande direttore wagneriano; come pianista però è spesso approssimativo e non sempre approfondisce il testo quanto si avrebbe diritto di pretendere dalla sua fama. Andando indietro nel tempo ricordiamo invece Arturo Benedetti Michelangeli, che aveva le stesse qualità che abbiamo appena attribuito a Shiff, ma non possiamo fermarci a quelle; mentre il primo faceva levitare il pubblico, lo sollevava dalla realtà, lo portava in un mondo iperreale e magico seducendolo con eteree sonorità, e ogni sua esecuzione creava un’atmosfera particolare e inconfondibile, il secondo è un pragmatico “scavatore” del testo, tanto concentrato nei dettagli da trascurare la sintesi, l’architettura complessiva e il senso ultimo dell’opera. Shiff crea sempre una straordinaria atmosfera intorno al suo pianoforte ma non è altrettanto attento nel definire quella specifica del singolo autore. L’altra sera, ad esempio, quando dopo Beethoven ha eseguito per bis due pezzi di Bach (due Preludi e Fughe dal secondo libro del “Clavicembalo ben temperato”, il buon “Vecchio Testamento” di Von Bülow), non si è percepito l’abisso – né il lungo secolo – che divide l’uno dall’altro mentre entrambi, sia Beethoven che Bach, ricordavano troppo Schubert, l’autore che gli è più congeniale, di cui resta un incomparabile interprete.

 

Dal mondo mitteleuropeo di Bach, Beethoven e Schubert a quello anglosassone di Händel – che è nato in Sassonia, nello stesso anno di Bach, ma ha vissuto per gran parte della vita alla corte inglese, intorno all’abbazia di Westminster dove è stato addirittura sepolto – cambia tutto, non solo l’ambiente culturale in cui sono maturati quei giganti della musica, ma anche perché la musica per tastiera, e dunque in senso stretto “da camera”, non ha nulla da spartire con i monumentali Oratori della musica “da chiesa”, anche quando ne è coeva. Basta pensare di accostare, per rimanere nelle “atmosfere” bachiane, le laiche Variazioni Goldberg alle mistiche Passioni.

L’interpretazione che del Messiah ha dato Ruben Jais all’Auditorium, con la sua “Verdi Barocca” e il “Coro sinfonico di Milano” di Erina Gambarini, è stata per certi versi esemplare, per altri deludente; esemplare per la sobrietà e l’essenzialità della lettura – scarna, intima, tesa, senza fronzoli – che mirava dritta al disegno complessivo dell’opera e alla sua pura concettualità, essendosi anche giovato delle quattro belle voci di Deborah York, Sonia Prina, Cyril Auvity e Christian Senn (alcuni di loro forse avrebbero dovuto curare di più la pronuncia del testo, ovviamente inglese e per giunta arcaico).

Deludente perché, paragonata alle ormai classiche edizioni con grande orchestra sinfonica e grande coro, l’esecuzione affidata a una piccola orchestra – con soli quindici archi, due oboi, due trombe, un fagotto, timpano e clavicembalo – e a un coro di poco più di quaranta elementi, sembrava un po’ esoterica, esclusiva, riservata a esperti o ad adepti filologi. Della originaria monumentalità restava assai poco. Lo si è capito molto bene quando, come bis, è stato ripetuto il celeberrimo “Hallelujah!” eseguito però in modo assai diverso da come era stato ascoltato poco prima, nel contesto dell’opera. Jais lo ha “liberato”, ha “sciolto” il coro e l’orchestra permettendo loro di spiegare tutte le energie vitali contenute nel testo. È parso che la scena cambiasse: come passare dalla cappella di un convento romanico alle volte di una grande cattedrale gotica.

Meglio? Peggio? È una discussione che viene da lontano e non finirà mai. In realtà sono due modi altrettanto importanti di leggere i capolavori dell’epoca barocca, e bisognerebbe saperli godere entrambi.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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