13 novembre 2012

AMBROSOLI E I VASSALLI DEL POTERE


Le cose semplici non sono né nel nostro DNA né nel nostro destino. Le elezioni regionali, come tutte le elezioni da qualche tempo in qua, sono una corsa ad ostacoli, ostacoli messi in piedi dai partecipanti per complicare la vita ai propri avversari, ricambiati della stessa moneta. Mi piacerebbe che qualche ricercatore stilasse una graduatoria tra Paesi democratici classificandoli secondo la durata di validità delle loro leggi elettorali: sicuramente il premio ai più volubili è per noi. E non solo.
Da qualche tempo in qua ci divertiamo anche con le primarie. Così è, tanto vale guardare in faccia alla realtà. Lombardia. Il tormentone delle primarie speriamo che non rimetta in discussione la candidatura di Umberto Ambrosoli, anche se francamente non ho capito che rapporto ci sarà tra il suo programma – quello di uno dei candidati alle primarie – e quello che fino ad ora sembrava essere il programma comune dei partiti che intendevano formare una coalizione di centro sinistra. Anche se per età, per cultura e per carattere tenderei ad annettere molta importanza ai programmi e soprattutto alla loro pratica declinazione, ho capito, perché i più giovani me l’hanno spiegato, che nell’era della politica mediatica per vincere conta di più di tutto l’immagine del candidato.
Mi adeguo e, superato d’un balzo il problema del programma, cerco di capire come possa andare il poi, quando il candidato vincitore deve cominciare a governare e rispondere alle attese dei suoi elettori. Se è un vincitore nel segno della continuità, non vedo problemi ma se invece, come mi auguro che sia, è un vincitore nel segno della discontinuità avrà dei problemi: in Regione Lombardia in particolare.  Nei quindici anni del suo governatorato Roberto Formigoni ha costruito una macchina burocratica perfettamente funzionale al suo disegno, accentrando su di sé attraverso un direttore generale ideologicamente affine e certamente capace, tutto il potere e il controllo con un sistema di deleghe a burocrati vassalli di provata – o opportunistica – fedeltà.
Questo modello, non so se altrove ve ne sia uno simile, sembra seguire la strada secolare tracciata dalla chiesa cattolica: una struttura rigidamente piramidale che pur offrendo quest’ultima indubbie possibilità di scalata al vertice – anche l’ultimo seminarista può diventare Papa – privilegia l’ortodossia e dunque la fedeltà. Quest’assetto burocratico ha di fatto svuotato le funzioni della Giunta, degli assessori e, ovviamente, dell’assemblea.  Non so quanto rimarrà nel programma della coalizione, formata da forze civiche e partiti, di quello che ora leggo nel documento “Nuova Lombardia” del Pd ma se dovessi rileggere una frase come questa: “Limitiamo l’invadenza del Pirellone: non serve un neocentralismo regionale. L’open Government va adottato come principio cardine dell’organizzazione dell’intera macchina per semplificare e rafforzare trasparenza e legalità. Il baricentro delle decisioni va spostato sul territorio, verso i Comuni prima di tutto. Programmazione e controllo vanno disgiunti nettamente dalla gestione. Controllore e controllato non possono sovrapporsi. Vanno stabiliti e rispettati limiti temporali di mandato per gli incarichi istituzionali ma anche per le più rilevanti responsabilità dirigenziali.”, mi domanderei sinceramente se con questo impianto burocratico sia pensabile dar seguito a queste idee.
E non solo di struttura dobbiamo parlare ma anche degli uomini che ne sono l’espressione. Quanto della burocrazia della Regione si è formato per meritocrazia? Ma anche: quali sono i meriti cui ci si riferisce quando si parla di meritocrazia? Quanto deve, o meglio dovrebbe, essere “laica” la burocrazia? Fino a dove deve spingersi il rigore morale di un burocrate rispetto a comportamenti la cui natura non gli può essere sfuggita? E nel caso di una Regione travolta dagli scandali come si giustifica tanto silenzio? Queste sono gli ineludibili interrogativi di chi vuol governare un cambiamento.

Luca Beltrami Gadola



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