7 novembre 2012

PARTECIPAZIONE, UNA STRADA IN SALITA. M5S, UNA STRADA IN DISCESA


Contro la corruzione, l’illegalità, la “casta”, contro i privilegi dei pochi: leggiamo, ascoltiamo e ci indigniamo. Fino al punto che indignarsi diventa la normalità, l’abitudine, il cliché. Il cliché del cittadino indignato. Dell’elettore che decide di non andare più andare a votare; ed è di elettori (più o meno) di centrosinistra che parliamo in questo caso. Una sottile inconscia soddisfazione si nasconde, in fondo, nello scoprire l’ennesimo abuso di potere, o situazione poco trasparente della quale è di volta in volta protagonista un candidato alle primarie, un consigliere regionale o la segretaria di un leader politico. La vis polemica (certo molto sollecitata dagli eventi…) non fa ormai più distinzioni tra violazioni macroscopiche e minori, tra esponenti della parte avversa e della propria. La tentazione della classica frase “sono tutti uguali” è in agguato, anche negli osservatori più attenti e informati.

E anche in mancanza di illegalità, c’è chi ama trasformarsi da indignato in moralista, difensore del cosiddetto bene comune che, specie in quest’autunno, è uno dei concetti più citati e meno definiti della politica. Così a Milano – nell’intervallo tra un accadimento e l’altro – qualcuno si prende la briga di compilare la lista dei dipendenti e consulenti del Comune che hanno usufruito dei biglietti omaggio per San Siro o dei parcheggi gratuiti. E nel clima generale che si è creato trova riscontro, audience. La sfiducia nella politica si trasforma spesso in vera e propria acredine, verso chiunque occupi una posizione o ricopra una carica. Come minimo non è la persona adatta, è stato scelto arbitrariamente e non ha fatto abbastanza. Non si considera mai che, nella soddisfazione che si arriva a provare per la colpevolezza o per l’errore di un rappresentante delle istituzioni, c’è una sconfitta generalizzata, comune. Da questo giudicare sempre e comunque con severità e atteggiamento di condanna l’operato altrui, chiamandosi sempre e comunque fuori, da questo nasce il successo del Movimento 5 Stelle: in Sicilia, in Italia. La coscienza critica e giudicante di chi ancora non ha fatto niente, ma sa con certezza che quanto fatto finora è senza ombra di dubbio sbagliato. Beato chi non ha dubbi.

Da due anni al centro del dibattito politico milanese c’è il tema della partecipazione: come antidoto all’antipolitica, al disinteresse, alla distanza sempre più profonda tra decisioni e reali esigenze, tra le tante e differenti forme del fare. È il percorso, il tentativo delle persone di “essere dentro” a ciò che le riguarda da vicino. Se collaboro a un progetto, se un progetto è partecipato, allora non viene più costruito a mio discapito, bensì in larga misura grazie a me.

Sembrerebbe, ma non è così semplice. Perché anche nel variegato mondo della partecipazione c’è sempre chi punta il dito. La nuova amministrazione di Milano stima la collaborazione dei cittadini importante e prioritaria, ma sarà effettivamente così? È vero che nei politici-amministratori (e non) manca ancora troppo spesso la volontà di ascoltare, interagire, di porsi sullo stesso piano dei cittadini e, la naturalezza di non far pesare la propria posizione di “potere”; allo stesso modo però il cittadino attivo, animato dalle migliori intenzioni, rischia talora di lasciarsi fuorviare dall’ansia di protagonismo. Trovo sia un po’ troppo diffusa la convinzione che il disapprovare un certo status, un provvedimento, una riforma di qualunque genere venga considerato un’espressione di intelligenza e onestà intellettuale, di civismo; al contrario, mostrarsi d’accordo è sinonimo di appiattimento, ingenuità, mancanza di senso critico. Si dovrebbe essere quindi cauti tanto nell’aderire a un’idea quanto nel contrastarla, tanto nell’accettare una proposta quanto nel promuoverne una contraria. Perché in alcuni casi l’arroganza di chi “sta al potere”, e che tutti conosciamo per esperienza diretta o indiretta, è pari a quella di chi è dall’altra parte.

Non sono un’esperta di partecipazione dal punto di vista teorico, su questo tema immenso c’è chi scrive libri e tiene corsi, molte città hanno messo in atto prima di Milano sperimentazioni positive che possono raccontare e trasmettere. Parlo solo per esperienza personale, per quello che ho vissuto e vivo all’interno del mio percorso di impegno volontario. È scontato che partecipazione sia opportunità di portare conoscenze e valori aggiunti, di farsi portavoce di interessi comuni e condivisi, di dare un contributo costruttivo a un processo di cambiamento ecc…. Tuttavia sono arrivata anche alla convinzione – probabilmente poco apprezzata dagli addetti ai lavori – che partecipare sia anche acquisire la capacità e la maturità di delegare. Non certo nell’interesse dei politici (sollevandoli così dai problemi e lasciando loro campo libero per agire indisturbati) ma nel proprio: se si è scelto qualcuno per svolgere un compito, è giusto ribadire l’importanza e la responsabilità di quest’incarico.

Sono convinta che la prima espressione di partecipazione rimanga ancora, dopotutto, il voto. E rimango un po’ scettica nei confronti di chi vi rinuncia e traduce il dissenso in astensionismo. Si muove magari nella direzione di altre forme di coinvolgimento, ma a questa rinuncia perché la sente lontana da sé e soprattutto perché ritiene di dare un segnale forte. Non mi è mai sembrata una forma di protesta che possa portare un risultato né a livello individuale né di collettività; al posto di chi non si esprime si esprimeranno altri, e il partito della non espressione non avrà mai, in nessun caso, voce in capitolo. Se posso arrivare a capire chi si astiene per disinteresse, per mancanza di conoscenza, per un generico e qualunquistico disprezzo, faccio più fatica a immedesimarmi nelle scelte di una persona informata e attenta alla “cosa pubblica” che decide di non votare. Cito Michele Serra nell'”Amaca” di qualche giorno fa: “E chi non ha votato, per quanto maggioranza assoluta, pesa meno della più insignificante delle listarelle…”

Con questa premessa, per me fondamentale, ammesso che poi a vincere siano le persone che abbiamo scelto e votato, e che (per esempio nel caso di una città) si stabilisca un rapporto di fiducia tra amministrazione e cittadini, allora forse partecipare non deve corrispondere necessariamente a mettere la propria “firma” su ogni questione in discussione. Quando si condivide un sistema e non lo si subisce, se si concorda in una certa visione del mondo, allora si può, in piena tranquillità e senza temere di perdere prerogative, lasciare spazio per portarla avanti. Questo mi sembra tutto sommato naturale, persino auspicabile. Mentre trovo meno accettabile non essere messa dal mio interlocutore (politico) nella condizione di comprendere e di aderire a pieno. Prendere in mano una situazione prima di un’altra, avere una o più priorità a scapito di altre, non investire in un progetto per privilegiarne altri più urgenti: va tutto bene, ma chi mette ogni giorno il suo impegno oserebbe pretendere che venissero spiegate sempre tutte le motivazioni: documenti alla mano, testimonianze di tecnici, dimostrazioni di avere preso in considerazione tutti i parametri, le soluzioni, le alternative. Senza arroganza, e in una condizione di assoluta parità: se non decisionale, almeno nelle valutazioni.

D’altra parte, più una decisione è chiara, più la ragione di un’azione è valida, più il linguaggio e le parole per spiegarla sono semplici, alla portata di tutti. Il parlare semplice, lo scrivere semplice è una forma di democrazia, e rappresenta anche la precisa volontà di essere compresi, approvati, appoggiati e sostenuti. Quando invece il discorso si contorce, e i linguaggi elitari e tecnici dell’urbanista, dell’avvocato, del burocrate vengono usati volutamente come barriera: allora sì che i criteri diventano meno trasparenti e condivisibili. Questo respingere con le parole, insieme alla mancanza di ascolto, è il primo passo con cui la politica si allontana dalle persone e dalle loro necessità; così viene vissuta come un’isola di privilegio con la quale è impossibile interagire. E contro cui puntare il dito.

 

Eleonora Poli



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