7 novembre 2012

STATO E REGIONI: NÉ CENTRALISMO NÉ FEDERALISMO


“Creare un gruppo di persone competenti, elaborare un programma da proporre ai cittadini, con una coalizione ampia e trasversale, condividere con i partiti criteri rigidi per la scelta dei candidati e meccanismi di trasparenza anche in campagna elettorale” (Umberto Ambrosoli, la Repubblica, 22/10/2012). Non si può fare. Non c’è tempo. Ma è solo questione di tempo? Oppure manca quello che è mancato nell’ultimo decennio, allorché di tempo ce n’era in abbondanza: la capacità di riflessione critica sulla struttura istituzionale regionale e sub-regionale, con gli annessi risvolti riguardanti ruolo dei partiti, selezione e formazione del personale politico, regole e prassi elettorali.

Su quest’ultimo punto, ad esempio, dovremo assistere ancora alla sfilata di manifesti raffiguranti mezzibusti variamente atteggiati e abbigliati, sormontati da slogan insulsi e intercambiabili, posto che – nella nuova e unanime legge elettorale lombarda – le preferenze sopravvivono tranquillamente all'”effetto Zambetti”? Visto peraltro che le liste dei candidati, sottratte persino alla formalità dei “presentatori”, si ripartono per circoscrizioni ricalcate sulle vecchie dodici province, ovvero le “federazioni” degli attuali partiti, ignorando del tutto le trasformazioni istituzionali in atto!

Sul primo punto è doveroso invece registrare il mezzo disastro dovuto alla modifica del Titolo V della Costituzione del 2001, riguardante il rapporto Stato-Regioni, ovvero quella parte immediatamente attuata (l’altra parte, relativa invece a una positiva ridefinizione dei ruoli di comuni, province e città metropolitane é stata invece del tutto elusa!). Nonché richiamare il disastro integrale, questa volta fortunatamente evitato, della riforma federale/presidenziale del 2006, bocciata con referendum popolare. Il risultato comunque è paradossale: l’ubriacatura “federalista”, con la quale la Lega ha esercitato una incontrastata ventennale egemonia, ha generato un improprio “centralismo regionale”, confusamente concorrente con lo Stato e ambiguamente sovrapposto alle autonomie locali. Vedi le fondamentali questioni della sanità, in cui il referente politico è accentrato nell’Assessorato regionale, vertice gerarchico di una piramide “aziendale” (mentre in origine le unità sanitarie locali non erano che “i comuni singoli o associati”) oppure l’edilizia popolare allorché l’ALER, di nomina regionale, ha sostituito gli IACP a struttura provinciale.

Con questo la Lombardia – non diversamente da tutte le altre regioni a statuto ordinario – ha tradito l’ispirazione originaria (organo di legislazione specifica, a cascata rispetto a “leggi-quadro” nazionali, e di alta programmazione) per trasformarsi in un gigantesco e mostruoso ente amministrativo, comprensivo di sedi faraoniche, interventi a pioggia, maneggio di spesa corrente, pratiche clientelari quando non proprio corruttive. Pertanto l’ipotetico “programma Ambrosoli” sarebbe forse partito proprio da un’energica cura dimagrante non solo e non tanto degli organi politici e dei relativi costi, quanto della complessiva organizzazione strutturale e funzionale, recuperando risorse da ridistribuire ai Comuni, in sofferenza per il blocco delle entrate e del turn-over del personale. Prospettiva del tutto mancata ancora nelle precedenti elezioni allorquando l’alternativa tra Formigoni e Penati ha indotto più di un elettore – come l’asino di Buridano alla rovescia, schifato da entrambe le greppie – ad astenersi dal voto (confesso: me compreso!).

Di seguito osiamo immaginare, nel programma mancato per un fuggente attimo, il riordino di tutto il sistema delle autonomie sub-regionali: compattamento dei piccoli comuni, riaccorpamento delle province, istituzione della città metropolitana; con puntuale definizione delle rispettive competenze e responsabilità nonché dei relativi diritti e doveri di cittadinanza. Qui sovviene la parte buona del Titolo V, sinora del tutto incompresa e ignorata, basata sui principi di “sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione” (art. 118) che, se giustamente applicati, cambierebbero la faccia di una Repubblica non più “ripartita” in regioni ed enti locali, bensì “costituita” – a partire dal basso – da livelli successivi di governo che contemplino una necessaria cessione di sovranità riguardo competenze gestibili in ambiti più comprensivi onde garantirne “l’esercizio unitario”: comune, ente intermedio, regione, Stato, comunità europea. Il contrario dell’invasione dall’alto al basso degli ambiti gestionali e partecipativi, necessariamente decentrati.

Sulla vexata quaestio dell’ente intermedio, che a casa nostra deve prendere il nome di “città metropolitana” (maledetto ossimoro! vedi l’eccellente saggio di Guido Martinotti in ArcipelagoMilano n. 32 e 33, teorizzante l’ideal-tipo di metropoli del XXI secolo) occorre altresì decidere hic et nunc cosa sia e dove sia nella realtà di Milano e dintorni. In proposito lo stesso Sociologo esplicita: “che dire per esempio di un’area metropolitana milanese senza Monza, oppure di Firenze senza Prato? Si rafforza sempre più il dubbio che le componenti elementari del lego istituzionale non siano quelle giuste”, a conferma del fallimento della secessione monzasco-bianzola e dei suoi provinciali (in tutti i sensi) fautori, che pur di non riconoscere l’errore compiuto perseverano vaneggiando assurde aggregazioni prealpine! (per fortuna corretto dal Governo col risolutivo DL del 31 ottobre, che ci si augura convertibile mediante fiducia, escludendo ogni ulteriore velleità di eccezione o deroga).

Ma ci sarà mai tempo per una cultura di governo adeguata ai tempi? All’età dell’Europa unita e della globalizzazione? Per ora temo di no; così come la meditata e motivata rinuncia di Ambrosoli conferma purtroppo un criterio perverso di selezione della classe dirigente, ingenerato da una politica appiattita sul mercatismo, che obbedisce alla nota legge di Gresham: “la moneta cattiva scaccia quella buona”.

 

Valentino Ballabio



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