7 novembre 2012

musica


 

IL RITORNO DI “CLAUDIO”

La settimana scorsa, subito dopo aver assistito alle prove, l’avevamo annunciato: sarebbe stato “il difficile argomento della prossima nota“. Ed eccoci qui a raccontare l’«evento» per antonomasia della stagione musicale 2012-2013 e cioè il ritorno di Abbado alla Scala, alla guida della Filarmonica, dopo ventisei anni di assenza. È tremendamente difficile staccarsi dal coro strepitoso di osanna e di alleluia che hanno accolto l’ormai famosa serata di martedì 30 ottobre, destinata a passare alla storia del Teatro, della Città e della Grande Musica. Tuttavia dobbiamo provarci, per amore di verità, e dar conto di una serie di curiose “anomalie”, sia dentro il concerto che fuori dal Teatro.

Cominciamo a dire che dopo tutto quel putiferio di soli quattro anni fa sui 90.000 alberi da piantare in città come conditio sine qua non per lasciare il volontario esilio (“… un cachet fuori dall’ordinario … un pagamento in natura … se accadrà, sono pronto a tornare …“); non solo gli alberi non sono stati piantati, pare nemmeno uno, ma – non si sa com’è – non se ne è più parlato, quantomeno (come sarebbe stato ovvio) in questa occasione. Nessun accenno, né da parte di Abbado né da parte del Sindaco che – proprio perché non è più lo stesso di allora – avrebbe potuto almeno scherzarci sopra. Ci saremmo aspettati da parte della città almeno un omaggio alternativo, anche solo simbolico, ad esempio quegli schermi giganti, in piazza e in Galleria, che avrebbero accontentato i tanti senza posto in teatro. Tutto è invece filato via come qualsiasi concerto di routine: unici segnali dell’evento l’affannosa caccia ai biglietti (non si potevano prevedere delle repliche?), il tram che ha attraversato la città con un “Bentornato Claudio” sulla fiancata e il lancio finale di fiori sul palcoscenico (entrambi organizzati dagli “Abbadiani itineranti” che di più certo non potevano fare ma che non sono “la città”, quella per l’appunto che si era impegnata a piantare gli alberi).

Poco straordinario era anche il programma del concerto, inserito in un breve ciclo di 5 Concerti per pianoforte e orchestra (Beethoven, Brahms, Čaikowskij, Chopin e Bartòk) tutti eseguiti da Barenboim (sic!) e uno solo diretto da Abbado – il n. 1 opera 11 di Chopin in mi minore – che ha dato l’avvio alla serata prima dell’evento vero e proprio costituito dalla sesta Sinfonia di Mahler. Dunque un programma privo di ogni riferimento alla storia dei diciotto anni della Scala di Abbado né a quella dei ventisei da lui trascorsi lontani dal teatro, e neppure l’attesa ottava Sinfonia mahleriana, l’unica mai diretta da lui alla Scala (tanto più che proprio l’ottava, detta “dei mille” per il colossale organico richiesto, avrebbe giustificato le due orchestre che il direttore inusualmente ha voluto fondere in una – la Filarmonica padrona di casa e la Mozart di Bologna, prima e ultima da lui fondate – certamente per offrire alla seconda l’ambita occasione di debutto sul prestigioso palcoscenico milanese). Neppure un accenno a Verdi o a Wagner, i due grandi protagonisti della stagione, di cui si celebrano i bicentenari della nascita.

Venendo ai contenuti e all’esito della serata, incredibilmente magica nonostante ciò che abbiamo detto e stiamo per dire, non possiamo non chiederci come sia possibile che Barenboim sieda ancora al pianoforte su un palcoscenico così importante (e che Abbado, selettivo ed esigente com’è, abbia deciso di accompagnarlo) essendo evidente che da tempo non gli obbediscono più le mani e che conseguentemente perde anche quella lucidità che gli è invece propria – nelle occasioni che gli stanno a cuore – nel ruolo di direttore; il suo fraseggio era pesante e “sporco” (pieno di errori e di imprecisioni), in totale disarmonia con quello limpido e trasparente dell’orchestra, e dunque quel Concerto di Chopin non possiamo tristemente considerarlo altro che un episodio da dimenticare.

Tutto ciò si può spiegare solo alla luce della conclamata amicizia fra i due, o sul valore simbolico di un direttore musicale (o meglio facente funzione) del teatro che, alla vigilia della conclusione del mandato, ritiene di dover accogliere personalmente il grande esule suonando con lui. Sono argomenti sufficienti? Ne dubitiamo.

Finalmente, dopo aver superato tutti questi disagi, con la sinfonia di Mahler ci siamo miracolosamente ritrovati di fronte alla grande magìa di Abbado, direttore diverso da tutti gli altri, irraggiungibile, il cui solo gesto – tanto familiare a chi ha l’età per averlo ascoltato infinite volte prima del 1986 o a chi l’ha seguito in questi anni in giro per il mondo – spiega il significato ultimo della musica più di qualsiasi trattato; non si agita, non si sbraccia, i suoi movimenti sono essenziali, misurati, sobri, “raccontano” la musica, la spiegano sia ai colleghi che al pubblico. Non ha mai lo spartito davanti perché le note le ha tutte dentro di sé, non prevarica l’orchestra, non dimentica un attacco; per lui dirigere non è imporsi ai musicisti che gli siedono di fronte ma creare il clima giusto affinché tra loro si stabilisca armonia ed empatia e ciascuno possa dare il meglio di sé. In Abbado non vi è ombra di esibizione, manifestazione di potere o tentativo di soggiogare o di sedurre, piuttosto una garbata e autorevole (si badi bene, non autoritaria!) partecipazione al lavoro comune con un profondo spirito di servizio, quello di studiare anche per gli altri e di dare una mano affinché il lavoro di tutti possa produrre il miglior risultato. Direte che non è il solo a dirigere con questo spirito; se non è il solo è comunque quello che ci riesce meglio. Bentornato Claudio.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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