24 ottobre 2012

DIVORZIO COLLABORATIVO: NUOVA FORMA DI RISOLUZIONE DEL CONFLITTO


La tendenza a voler cercare e trovare, principalmente dagli stessi individui protagonisti delle situazioni conflittuali, le risorse per risolvere in maniera costruttiva i propri dissidi interni sembra ormai una strada intrapresa e che prosegue, in parallelo, sia nella vita pubblica che in quella privata. Da pochi anni infatti, sull’onda di nuove forme più morbide, solide e durature di risoluzione dei conflitti, anche in Italia si è cominciato a formare avvocati che praticano il “divorzio collaborativo”, una nuova possibile procedura, alternativa a quelle già esistenti, applicabile alla separazione personale e al divorzio tra coniugi.

Sia quella giudiziale (a iniziativa di un coniuge che presenta unilateralmente ricorso al Giudice) che quella consensuale (conseguente a ricorso congiunto) infatti troppo spesso si sono manifestate insufficienti e inadeguate a condurre gli ex coniugi definitivamente fuori dal tunnel, sofferto e tormentato, del periodo che accompagna un così radicale cambiamento di vita.

La complessità delle difficoltà emotive, psicologiche, economiche e pratiche che una persona deve contemporaneamente affrontare nel momento della presa di coscienza che la propria vita affettiva deve cambiare, spesso non trova adeguato supporto nelle possibilità offerte dall’Ordinamento Giuridico, che si preoccupa di regolamentare, prevalentemente, solo aspetti pratici ed economici (solitamente i tempi di permanenza dei figli con l’uno o l’altro dei genitori e la fissazione di un assegno di mantenimento).

Una decisione presa, non di rado frettolosamente dopo la prima udienza di comparizione delle parti, da un Giudice oberato di cause e che non può materialmente prestare la dovuta attenzione e tempo richiesto dal caso trattato, può costituire una soluzione transitoria che spesso si rivela inadeguata e, talvolta, anche capace di creare più danni che rimedi.

Una separazione consensuale raggiunta in modo sbrigativo, magari in pochi minuti davanti alla porta del Giudice o dietro il timore, e non di rado, anche non troppo velate minacce, di ritorsioni sull’affidamento dei figli o su altre delicate questioni del genere, può portare a ripensamenti immediati, purtroppo tardivi, che altro non fanno che minare la buona prosecuzione del rapporto tra gli ex coniugi, spesso genitori degli stessi figli.

Può succedere che la coppia sia perfettamente in grado di affrontare il cambiamento e, con più o meno facilità, raggiunga un accordo consensuale condiviso, ma molto spesso i tempi di accettazione del fallimento della propria vita affettiva e matrimoniale non sono uguali per entrambi i coniugi e la sofferenza, anche riflessa, degli altri membri della famiglia è tale da richiedere un’attenzione più profonda, da parte di esperti, che possono accompagnare le persone coinvolte nel mare tempestoso dei rancori e degli addii, a raggiungere, con calma, un porto tranquillo.

Scegliere il diritto collaborativo significa siglare un Accordo di partecipazione che garantisca la riservatezza di tutto quanto dichiarato e prodotto durante il procedimento collaborativo, e successivamente sedersi tutti insieme: avvocati, coniugi, psicologo, con l’eventuale ascolto dei figli, per iniziare un percorso fatto soprattutto di trasparenza e correttezza, con lo scopo di individuare i veri interessi delle parti in causa e di ricercare insieme una soluzione condivisa. Ben sapendo che la strada, fatta a volte di prove ed esperimenti, dovrà rispettare i tempi di ciascuno, nella tolleranza e riconoscimento delle problematiche individuali che, proprio dagli stessi soggetti interessati, devono trovare una soluzione.

Ci troviamo di fronte quindi a un profondo cambiamento del ruolo della professione: l’avvocato che accetta e pratica il diritto collaborativo, deve dismettere i panni classici insiti nella figura tradizionale del legale, per entrare maggiormente in quelli del facilitatore alla negoziazione, concentrarsi sugli interessi sottostanti alle richieste del cliente, assistendolo nella loro messa a fuoco al fine di smarcarsi da situazioni di stallo, verso soluzioni, anche creative e inaspettate, del conflitto.

Mantenendo come sfondo il diritto, che conosce, dovrà aver imparato a gestire le tensioni legate alla negoziazione e a collaborare con altre figure che si rendessero necessarie nel caso trattato (specialista delle relazioni familiari, del bambino, esperto finanziario) con uno spirito di squadra, non abituale per il professionista, nell’ottica di concentrarsi soprattutto sui risultati comuni da raggiungere.

Dovrà quindi aver seguito un corso di formazione che lo specializza nella negoziazione basata sugli interessi, ed essersi iscritto a una associazione (la più conosciuta in Italia è l’AIADC, Associazione Italiana Avvocati di Diritto Collaborativo), impegnandosi a rispettarne rigorosamente i principi di lealtà e trasparenza.

Insomma, sembra ormai che la strada intrapresa per la risoluzione dei conflitti, siano essi personali che di dimensione pubblica, partita con la tanto osteggiata legge sulla mediazione obbligatoria sia difficilmente reversibile, e si stia diffondendo a macchia d’olio in ogni settore, sviluppando la tendenza a valorizzare le risorse umane e le capacità individuali delle persone, aiutandole a tirare fuori da se stesse le capacità per decidere della propria vita e di partecipare in prima persona alle decisioni che le riguardano, nella convinzione che soprattutto da lì, e dalla comprensione effettiva e trasparente dei problemi, possa avvenire ogni vero cambiamento che possa tenere nel tempo in maniera profonda e duratura.

 

Cristina Mordiglia

 



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