24 ottobre 2012

TESTAMENTO BIOLOGICO E SENSO DELLA FAMIGLIA


La morte del Cardinal Martini ci fa meditare su un tema sentito da tutti, ma sul quale non è facile discutere in maniera pacata: il fine vita e il testamento biologico.

Vorrei fare una riflessione su Carlo Maria Martini inteso come semplice uomo affetto per tanti anni dalla malattia di Parkinson, una malattia degenerativa, che, non solo non gli ha impedito di vivere a lungo, ma neppure di svolgere la propria attività per tanti anni.

La malattia cronica con la sua inevitabile progressione, può essere contenuta nel tempo e ben curata, con la collaborazione attiva del paziente e il sostegno della famiglia, permette di vivere la propria vita fino alle fasi più avanzate, senza che subentrino grosse complicazioni e limitazioni delle funzioni cognitive.

Martini è stato curato da autorevoli specialisti, in strutture di eccellenza, dove, volendo, avrebbe potuto ricorrere a ulteriori trattamenti, anche invasivi, che avrebbero potuto prolungare la sua sopravvivenza, ma in piena libertà e consapevolezza, ha rifiutato non le cure ordinarie, ma interventi sproporzionati che sarebbero sfociati nell’accanimento terapeutico e nella futilità.

Oltre mezzo secolo fa già erano presenti due differenti modi di esercitare la medicina: un’attitudine medica estrema e un’attitudine medica moderata. Nel primo caso, il medico, che considera suo dovere prolungare la vita il più possibile con ogni mezzo messo a disposizione dalle nuove biotecnologie, tende a imporre al paziente e ai familiari spese e sofferenze eccessive senza ottenere alcun vantaggio tangibile. In questo modo, il medico non sarà mai obbligato a prendere decisioni difficili e dolorose o potenzialmente imputabili. Inoltre, questa scelta ha numerosi vantaggi economici, non dimentichiamoci che molte strutture vivono su situazioni di questo genere, in cui l’etica si coniuga con il “portafoglio”.

Nel secondo caso, invece, si tenta ogni cura possibile finché esiste una ragionevole speranza per farlo, prolungando la vita del malato solo se il paziente stesso può averne benefici concreti. Quando ogni sforzo è destinato a fallire, l’unico dovere del medico è quello di garantire al paziente ogni cura e l’assistenza necessaria per controllare il dolore, ma senza sottoporlo a inutili e gravosi accanimenti. Questa scelta non impone sofferenze inutili al paziente, dolore ai familiari, e costi eccessivi alla struttura e alla società.

In questo caso la ragionevole speranza di beneficio e la libera scelta del paziente diventano elementi determinanti per escludere l’obbligatorietà di un trattamento e ci sembra che su tali direttive si sia indirizzata la volontà di Carlo Maria Martini. Questa scelta presuppone una profonda relazione medico – paziente – familiari, precedentemente avviata su direttive condivise. “È una medicina rispettosa del limite, che evita scorciatoie semplicistiche e assurde ostinazioni ma valorizza la relazione d’aiuto, senza farsi trovare impreparata di fronte a scelte drammatiche non discusse ed elaborate, considerando la morte un evento naturale da accettare”.

Le scelte del paziente, la medicina come coinvolgimento relazionale, contrapposta a una medicina distante, l’etica della cura e la relazione d’aiuto vengono ulteriormente rafforzate, in tempi in cui si tende a privilegiare gli aspetti tecnico-scientifici rispetto a quelli psicologici ed etici. Sarebbe importante che i pazienti insieme con i familiari ne discutessero, ma con un certo anticipo, non con angoscia ma con la dovuta calma e l’indispensabile equilibrio che questa scelta comporta.

In questo senso, la discussione su come preparare il proprio testamento biologico, potrebbe essere la prima occasione per parlarne in famiglia. Pertanto la decisione di riesaminare la proposta di delibera per istituire a Milano il registro dei testamenti biologici, non può che essere accolta positivamente. Ricordiamoci che San Francesco diceva: “Laudato sì mi’ Signore per sora nostra morte corporale.”

 

Giovanna Menicatti

 



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