24 ottobre 2012

LA PROPRIETÀ DELLA CASA


La società nata verso il Mille nelle città europee ha alcune caratteristiche che sono rimaste da allora le medesime, soprattutto il rapporto tra la civitas – l’insieme dei suoi cittadini riconoscibili come un Comune – e l’urbs, la sua consistenza materiale nei suoi muri. Questa società è caratterizzata dalla libertà – il detto l’aria della città rende liberi non pleonastico –, una libertà che consente a ciascuno di esercitare nel suo meglio una professione o un mestiere e di confrontare gli esiti della propria capacità nel mercato, a sua volta insieme una istituzione e un recinto murato ai margini dell’incasato.

La città è un cantiere – sostiene Le Goff – dove il ruolo di ciascuno nel mercato comporta la proprietà degli strumenti del proprio lavoro e la proprietà della casa dove esercitarlo e dove profittare degli oggetti prodotti dal lavoro altrui: la casa, con la sua inviolabilità sancita anche dalla nostra Costituzione, è il presidio insieme della proprietà e – dicono le iscrizioni sull’architrave dell’ingresso – della libertà di chi ne ha il possesso.

Per essere cittadini della città occorre avere giurato fedeltà alle sue regole e alle sue consuetudini – un giuramento pubblico, la conjiuratio, ripetuto in una pubblica cerimonia ogni anno – e avere il possesso di una casa: chi è in queste condizioni, abbia un lavoro riconosciuto e abbia un reddito superiore a una certa soglia, può partecipare alla vita politica della civitas, ma se non raggiunge la richiesta soglia censuaria partecipa comunque alle mille forme della vita cittadina, assoggettandosi alle corvée della guardia e della milizia, contribuendo a definire il contributo fiscale dei suoi concittadini, ma ha anche il diritto a un maestro elementare e a una scuola, a un medico condotto e a un ospedale, e a una sovvenziona pubblica nella povertà.

Questo profilo è rimasto da mille anni il medesimo: se cambiamo comune di residenza ci verrà chiesto di sottoscrivere il suo statuto e ci verrà chiesto l’indirizzo della nostra abitazione, che un vigile urbano verrà a controllare qualche giorno dopo: possesso che potrà consistere come consiste in affitto, in un mutuo, in leasing e quant’altro. Noi nasciamo per questo nella nostra famiglia – una famiglia nucleare appena allargata ai parenti stretti – ma in quanto persone socialmente riconosciute apparteniamo, come diceva Brunetto Latini, al nostro Comune, tutti accomunati da una medesima appartenenza alla civitas.

Non è questa la condizione dell’Islam, intuita in piccolo libro da Henry Pirenne, Maometto e Carlomagno, descritta nel Trecento dal massimo sociologo della città araba, ibn Khaldūn: la sua città è dominata da clan separati tra loro, chiusi entro recinti che la sera chiudono le loro porte – agli inizi dell’Ottocento erano al Cairo una quarantina – e uniti da un indissolubile legame di sangue cui nessuno può avere accesso se non nella forma subordinata di cliente, spesso in lotta tra loro per conseguire la supremazia sugli altri clan: chi sia attento alle vicende contemporanee dei paesi dell’Islam riconoscerà subito l’emergere dei tradizionali conflitti tra i clan e le tribù radicati anch’essi secoli e secoli orsono, a testimoniare la permanenza delle nostre società.

Nelle città europee i gruppi dominanti che vorranno impedire ai nuovi arrivati di diventare a pieno titolo cittadini acquisendo i diritti politici faranno mancare i terreni edificabili – quasi sempre ab antiquo di loro proprietà per diritti di origine feudale o addirittura discendenti di antiche famiglie romane – costringendoli ad abitare fuori dalle mura dove le loro case non comportano diritti politici: sono quartieri riconoscibili in tutte le grandi città europee, a Milano fuori della porta Ticinese verso il sarcofago dei re Magi in Sant’Eustorgio.

Il progressivo affermarsi dei nuovi ceti sociali, i mercanti e gli artigiani che daranno vita ai Comuni delle gilde e delle corporazioni costringerà a inglobarli allargando le cerchie delle mura: a Firenze quintuplicando alla fine del Duecento l’estensione della città. Dante Alighieri, nel suo spirito reazionario, rimpiangerà Fiorenza, dentro la cerchia antica, /ond’ella toglie ancora e terza e nona/si stava in pace, sobria e pudica mentre è ora piena di quella spregevole gente nova e i subiti guadagni: ma la percezione che quell’ampliamento delle mura avesse consentito l’affermazione della società mercantile e della sua libera democrazia sarà così radicata che ancora duecentocinquant’anni dopo Cosimo de’ Medici farà dipingere dal Vasari, sul soffitto del salone dei Cinquecento nel palazzo della Signoria, Arnolfo di Cambio nell’atto di presentarne il progetto ai maggiorenti della città.

La strategia di limitare l’accesso alla cittadinanza di nuovi venuti in qualche misura sgraditi facendo mancare i terreni edificabili dove possano costruirsi una casa è da mille anni una costante cui viene fatto ricorso con molto seguito: per tenere lontani i vagabondi solo in parte trattenuti nelle work house delle parrocchie la prima regina Elisabetta vieterà a Londra la costruzione di nuove case fuori dai limiti della città esistente, e con una analoga scarsa fiducia nella reclusione dei poveri e dei vagabondi negli Hotel Dieu Luigi XIV pianterà una corona di cippi intorno a Parigi vietando di costruire oltre il loro limite: vent’anni dopo le case dei buoni borghesi con una porte cochère costruite abusivamente erano forse duemila, e fu giocoforza allargare i limiti e farli cittadini: mentre a Napoli la costruzione dell’albergo dei poveri fu preceduta da una severa tassa sulle nuove costruzioni.

La percezione del nesso tra possesso della casa e cittadinanza rimarrà così pervasiva che agli ebrei, per principio indegni di diventare cittadini di una civitas cristiana, verrà interdetta la proprietà delle case del ghetto, che dovevano appartenere a cristiani: e non per consentire una speculazione alle spalle di una comunità ricca e usuraia, ché poi gli affitti saranno per secoli bloccati al loro ammontare originario e i contratti ereditabili e trasmissibili.

Lo spirito egualitario dei rivoluzionari francesi decreterà che la proprietà di un terreno comportasse ipso iure la facoltà di costruire, sicché i piani regolatori cominciarono a venire costituiti da disegni che coprivano tutto il territorio comunale con una rete di strade il cui sedime, quello sì, non poteva venire edificato ma il cui valore veniva riconosciuto ai lotti contermini come riduzione dei contributi di miglioria.

La strategia conclamata negli anni Trenta di voler contenere l’urbanesimo non riuscì a venire accompagnata da quelle limitazioni adottate fino al Settecento perché i piani regolatori erano in effetti molto estesi e gli interessi già costituiti sulle loro previsioni difficili da scardinare – e anzi una città come Latina, nel fulgore del suo piano tradizionale, non poneva eccesivi limiti al proprio futuro – e sarà soltanto la legge del 1942 a rendere giuridicamente praticabile, sia pure con qualche riserva, di porre alla futura edificazione proprio come quel limite posto da Luigi XIX.

Preme qui sottolineare come le restrizioni a una larga disponibilità di terreni edificabili costituisca da secoli il nerbo di una strategia politica che, riducendo drasticamente le chance di procurarsi una casa con il cui possesso diventare a pieno titolo cittadini, impedisce ai nuovi venuti il pieno accesso alla cittadinanza, e posso rimanere sorpreso che questa strategia venga adottata non soltanto da quel reazionario di Dante Alighieri ma di quanti dichiarano di voler essere progressisti e di voler liberamente integrare nella nostra società i nuovi arrivati.

Gli storici del nostro medioevo – da Jacques Le Goff a Roberto Sabatino Lopez a Edith Ennen – hanno spesso rilevato la coincidenza degli stati d’animo di quei secoli lontani con quelli della nostra società contemporanea, e a me sembra, leggendo i loro libri e studiando centinaia di città europee, di aver vissuto mille anni: così la resistenza di chi è già cittadino a promuovere la cittadinanza di chi non lo è ancora rarefacendo in qualche modo i terreni edificabili mi sembra la versione attuale di una prassi ricorrente come un fenomeno carsico, ogni volta giustificata con motivazioni ad hoc compatibili con qualche leit motiv contemporaneo, che lascio ad altri – per esempio a Marco Ponti sul numero scorso di ArcipelagoMilano – di mettere in dubbio, e lascio anche volentieri a Friedrich Engels la priorità e la fortuna dell’idea che il problema dell’abitazione potesse venire risolto destinando a chi non aveva una casa il surplus della case dei ricchi.

 

Marco Romano



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