16 ottobre 2012

PIAZZA DEL CARMINE E DEI DEHORS FUORI CONTROLLO


Piazza del Carmine, che si affaccia su via Ponte Vetero, coincide con il sagrato della Chiesa gotica di Santa Maria del Carmine. Vedendola oggi ci si domanda se sia ancora una piazza a disposizione dei comuni cittadini; in certi momenti del giorno, soprattutto vicino all’ora dei pasti, si direbbe che l’uso della piazza sia ormai del tutto vietato all’uomo della strada, al passante qualunque. Occupata da tavolini, ingombra di sedie, suddivisa da transenne, attraversata da filari di cespugli, oggi la piazza non è più un luogo pubblico, un centro aperto a tutti i passanti, ma è diventata una colonia privilegiata, occupata da gestori privati e frequentata da avventori esclusivi. È diventata la espansione incontrollata di ristoranti, bar, caffè, pizzerie, e di vari esercizi che dal piano terreno delle case circostanti sono debordati sui marciapiedi e su ampie porzioni del sagrato.

Lo spettacolo non è del tutto spiacevole; suscita allegria, esercita una certa attrazione: potrebbe sembrare quasi divertente se non ci si accorgesse che i passaggi lasciati liberi tra le zone occupate da tavolini, e rimaste a disposizione dei comuni passanti, sono sempre più ristrette ed esigue; e i punti da cui i turisti possono fotografare la facciata della Chiesa, meticolosamente restaurata, ormai sono diventati rari e poco reperibili. Se poi l’occhio si posa sulle schiere di motociclette ammucchiate disordinatamente negli angoli della piazza diventa del tutto impossibile apprezzare il carattere serio e raccolto che un tempo conservava questo particolare luogo della vecchia Milano.

Si deve riconoscere che il drammatico e incalzante problema, il vero male diffuso, consiste in una progressiva e crescente degenerazione del senso civico, in una sua preoccupante scomparsa che si constata sia nella coscienza degli amministratori che nella educazione degli amministrati, sia nel ruolo dei politici che nella disciplina di chi li vota. Di fronte alle incalzanti e pressanti richieste dei singoli privati, si assiste a una indecorosa ritirata dell’Ente pubblico, a un suo riprovevole calo di autorità. È un fenomeno non facilmente avvertibile, poco apparente, a stento riscontrabile; è un processo subdolo, strisciante, nascosto. Ma inesorabile. Ne risulta una concezione della Società non tanto alimentata dalla iniziativa individuale fondata sulla Legge di mercato (il che sarebbe lecito), quanto disposta a concedere ai privati ogni beneficio e privilegio, anche se contrario all’interesse della collettività. Si è di fronte all’incalzante sgretolamento delle difese che l’Ente Pubblico dovrebbe garantire alla intera popolazione. Si nota una continua, capillare, costante prevaricazione dei singoli a danno della cittadinanza.

Corso Matteotti, aperto prima della guerra in pieno Centro Storico, e progettato in uno stile monumentale volutamente semplificato, è un’arteria non di grande valore urbano, ma di aspetto unitario, composto, ordinato. Con un intervento di inaudita violenza (e di incalcolabile danno per la futura circolazione urbana), il Corso è stato orribilmente mutilato, sia in lunghezza che in larghezza, e amputato di una sua intera metà per effetto della doppia rampa carraia di un grande parcheggio sotterraneo. Il bene pubblico che esso, come tante strade di Milano rappresenta, viene impunemente deturpato e sfigurato: dimostrazione di un umiliante cedimento dell’Amministrazione Comunale di fronte alla espropriazione di un suolo appartenente alla Città.

Analoga critica merita un diffuso e consolidato costume, da tempo esteso in ambito non più locale ma territoriale: la posa di cartelloni pubblicitari lungo le arterie stradali. Oltre a essere un pericolo per chi guida, perché distrae l’attenzione e confonde la vista, la pubblicità è anche una offesa al patrimonio ambientale, che è di tutti, un insulto al panorama paesaggistico che appartiene a tutti, e che, in questo modo, a tutti viene tolto, nascosto, cancellato. Il male è sempre lo stesso: sopruso da parte del privato; debolezza da parte delle Autorità pubbliche; oppure loro cecità; o anche loro connivenza.

Nella gestione della città spetta al Comune la cura dell’arredo urbano: la posa delle panchine; la formazione di angoli tranquilli, riparati, protetti dall’inquinamento acustico e atmosferico. Oggi, se una persona invalida, anziana, affaticata, desidera sostare e riposarsi, dove mai si dirige? Dove trova un posto accogliente e ospitale? Dove trova da sedersi su una panchina comoda e confortevole? Non possono certo dirsi confortevoli le gelide lastre di marmo, che in piazza San Fedele e in largo Croce Rossa congelano le natiche di chi si siede: prive di schienale, esse diventano una tortura per chi ha dolori alla spina dorsale; sprovviste di fessure nel sedile, esse rimangono bagnate e diventano inutilizzabili nei giorni di pioggia.

Piazza Meda, raccolta, centralissima, circondata da edifici dignitosi e austeri, potrebbe essere un piccolo e accogliente luogo di sosta, di conversazione, di ristoro. Non è così, il misero appezzamento di verde che ne occupa la zona mediana; le brutte scale di sicurezza che ne ostruiscono il porticato; la disadorna rampa di uscita che chiude l’imbocco di via Verri; la goffa cabina in vetro che contiene l’ascensore al parcheggio sotterraneo; tutto un insieme di errori costruttivi e di volgarità architettoniche ha fatto di questo luogo, che per sua collocazione urbana potrebbe essere invitante e attraente, uno dei più infelici spazi aperti della nostra città. Così come non bastava il “Torso” dello scultore Mitoraz a risollevare il sagrato del Carmine, non basta la “Ruota” dello scultore Pomodoro a riscattare Piazza Meda.

Le colpe di una Amministrazione non capace (o non intenzionata) a farsi rispettare sono sotto gli occhi di tutti.

 

Jacopo Gardella

 



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