16 ottobre 2012

OPPURE VENDOLA. LA POLITICA DAL VOLTO UMANO


O si ama o si odia, si vota senza se e senza ma, oppure mai per nessuna ragione. Difficilmente ci sono vie di mezzo. Chi si lascia trascinare dalle sue “narrazioni” e chi le etichetta come un espediente retorico: in ogni caso la persona, il personaggio, viene prima della politica. Nichi Vendola candidato alla Primarie del centrosinistra fa tappa a Milano per l’apertura della sua campagna elettorale; sala piena, toni accesi, parole che ricamano sui concetti, perché spesso la scelta di un termine cambia la sostanza del discorso. Grande oratore, poca ironia (che l’ironia da parte di molti politici è spesso una maschera dietro cui si nasconde il vuoto), pochi riferimenti e critiche agli avversari delle propria e dell’opposta parte (meglio parlare per affermazioni piuttosto che per negazioni del pensiero altrui), tante storie (che le storie della gente devono essere al centro del pensiero di chi governa o aspira a governare): così si presenta Vendola, molto uguale a se stesso, molto diverso dagli altri nonostante tutti i limiti che gli si possono trovare.

Ed è proprio così che lo si ama o lo si odia. Perché, per rispondere a Giacomo Marossi e al suo articolo della scorsa settimana su ArcipelagoMilano, anche i quarantenni – generazione alla quale appartengo – tutto sommato “ragionano ancora romanticamente per ideali e credono che i cambiamenti debbano passare per grandi idee”. Quella di Vendola non è solo come una visione politica, ma piuttosto una visione del mondo; a mio parere è l’aspetto che più lo distingue dagli altri. Cosa rara, in quest’epoca di specializzazione in ogni campo, che qualcuno provi a offrire un’immagine – un’immaginazione – omnicomprensiva della realtà; difficile e rischioso, affrontare la pluralità dei problemi, pratici ed economici, partendo da un’idea globale, da una valutazione e interpretazione complessiva dell’attuale situazione e del contesto che l’ha originata. Eppure il politico dovrebbe ancora forse avere la responsabilità – anche il privilegio – di essere un tuttologo prima che uno specialista.

Ecco allora che a noi quarantenni “non rottamatori” piace soprattutto questo, di Vendola, questo sguardo a 360°, quest’etica che regge i pensieri e le parole. Ci piace come affronta il tema del lavoro, e la sua convinzione (nient’affatto ovvia di questi tempi) che per avere diritto a un’occupazione retribuita non si debba essere necessariamente dei geni, né accettare per forza flessibilità e precarietà come un dato di fatto, o farsi spuntare una vocazione imprenditoriale se non la si ha. Ci fa piacere che qualcuno si accorga che non siamo tutti manager e non tutti aspiriamo a diventarlo; e che è desiderio e diritto di ciascuno quello di avere un riconoscimento nella società, indipendentemente da un valore economico desunto dal reddito annuo. Ancora riesce a stupirci, un aspirante premier che immagina una collettività in cui non sia tutto “monetizzato e monetizzabile”, dalla scuola alla cultura, dalla salute alla dignità delle persone. Scontato, populista? Il giudizio dipende ancora una volta da quanto si aderisce a quest’interpretazione.

Qualcuno che suggerisce, o almeno presuppone, un’alternativa – almeno vagliabile, almeno ipotetica – alla stringata logica per cui “non rende, quindi lo elimino”; non è quindi detto, forse, che un terreno non edificato debba essere visto “come una sottrazione di ricchezza” e che con la cultura non si mangia. Forse ci sono possibilità alternative.

In agguato la solita domanda: ma le penserà veramente Vendola tutte queste cose? Come si comporterebbe se fosse “dall’altra parte”, lontano dalla libertà che può dare il fatto di stare all’opposizione? Trovo che già parlare in termini diversi, disegnando altre prospettive e programmi, rappresenti un’enorme differenza; già chiedersi di che cosa avrebbe bisogno la gente, e non darlo per scontato, è un grande passo avanti. L’empatia – mi sembra di notare ascoltandoli tutti – non è una caratteristica molto diffusa tra i politici del centrosinistra, giovani o meno giovani che siano.

Non è detto che vi sia una soluzione e che questa sia a portata di mano, ma spesso viene da chiedersi se l’economia non possa risollevarsi con un sistema che non sia basato esclusivamente sull’incremento della produzione e dei consumi. Possibile considerare le persone prima consumatori che cittadini, possibile che l’unica via d’uscita sia produrre e spendere (aumentando la frustrazione in chi non può permetterselo), spingere a investire, a costruire nuove case, proporre una scelta illimitata e spaesante sugli scaffali dei supermercati? Una scelta illimitata di qualunque articolo, salvo poi non esserci più soldi per comprare. Si giustificano le “colate di cemento” con la scusa che tutti devono avere una casa da abitare, e chi già ce l’ha stia zitto per favore, vuole forse negare questo diritto agli altri? Salvo poi scoprire che ci sono migliaia di appartamenti vuoti (non dimessi, ma nuovi!) perché i costi al metro quadrato sono troppo alti e le famiglie trovano soluzioni alternative; magari condividere un appartamento con i genitori o trasferirsi in un’altra città.

C’è chi obietta che il benessere sociale è comunque aumentato rispetto a trenta quaranta anni fa e questo a livello generale non si può negare; ma quella in cui viviamo è anche una società con lati oscuri sempre meno percettibili, la povertà e il disagio non traspaiono. Ciascuno li può cogliere osservando il proprio campo d’interesse o ambito professionale, attraverso storie personali o raccontate. Il benessere si dimostra così soltanto apparente, le persone vivono al di sopra delle proprie possibilità, vogliono essere ciò che non sono. Chi come noi abita nelle metropoli ha però una visione parziale e in un certo senso distorta di quanto accade.

Libertà e modernità, sostiene Vendola, sono due concetti mistificati dalle classi dirigenti a proprio uso e consumo; la crisi antropologica non è meno grave di quella economica, un esasperato individualismo ha preso il posto della solidarietà: uno dei cavalli di battaglia di Vendola è che, finito Berlusconi, non è finito il berlusconismo. Ci si domanda sempre e ossessivamente dove vanno, che cosa vogliono i mercati, ma la questione dovrebbe essere invertita, invece, sarebbero i mercati a doversi chiedere dove vanno le persone. Dalle “nebulose urbane” che crescono senza forma ai margini delle nostre città ai siti archeologici di Pompei ed Ercolano che perdono pezzi, alle proposte di innovazione che non fanno i conti con carenze più radicate della volontà di cambiamento (vedi la condizione attuale della scuola pubblica): attraverso tanti esempi, quella evidenziata da Vendola è la mancanza di un progetto, di un disegno alla base del fare.

A questo caos generalizzato può porre rimedio “la buona politica”? Che dovrebbe essere poi un’idea per cambiare il mondo, bene comune contrapposto a uno stato di natura dove chi parte svantaggiato – economicamente, fisicamente o per qualche altro motivo – non ha tutele, né reti di protezione ed è quindi destinato in partenza a perdere. Ci piace pensare, con Vendola, a una comunità civile tenuta insieme da un forte collante, nella quale prevalgano solidarietà e cooperazione, in cui l’efficienza e le prestazioni elevate non siano l’unico motore di sviluppo e neppure l’unica forma di realizzazione del singolo. Le differenze tra destra e sinistra esistano, dopotutto, sono ancora abbastanza chiare; e Vendola dice qualcosa di sinistra.”Pensare a destra significa usare la vita per appropriarsi degli uomini e delle cose; pensare a sinistra significa usare le cose, stare con gli uomini per conquistare la vita”: lo affermava nel 2000 Roberto Vecchioni al congresso degli allora Ds; e a volte, si sa, gli artisti sintetizzano meglio dei politici.

 

Eleonora Poli



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