10 ottobre 2012

NON CONSUMO DI SUOLO VERSUS CASA E LAVORO?


L’articolo di Marco Romano mi ha lasciato senza parole. Paralizzato. Per il tono, ma soprattutto per la leggerezza con cui sorvola su un dibattito decennale sui consumi di suolo che coinvolge decine di studiosi, per l’ingiustizia di usare la sofferenza, quella di chi non ha casa e lavoro, come arma per legittimare l’attacco al paesaggio, al suolo; per non rendersi conto che dietro ogni metro quadrato di suolo cementificato c’è una filiera di speculazioni che nulla hanno a che fare con il bisogno della casa né quello del lavoro.

L’idea che esce dall’articolo di Romano è che il bisogno di casa e lavoro debba materializzarsi in edifici e capannoni che cementifichino aree agricole. Nessuno studioso di consumi di suolo si disinteressa alla questione casa o lavoro. Figuriamoci! Casa e lavoro sono temi ben presenti a tutti, ma semplicemente gli edifici che li contengono possono essere realizzati utilizzando quell’enormità di aree dismesse da recuperare e quelle decine di migliaia di appartamenti vuoti che abbiamo già nelle nostre città. Un urbanista sa bene che il problema della casa oggi non si risolve continuando a morsicare nuove aree agricole, salvo che si voglia continuare a dare retta alla pancia di un certo mercato immobiliare speculativo e dissipativo facendo crescere a dismisura la marmellata urbana e con essa i costi pubblici per mantenerla, come ci ha dimostrato ad esempio Roberto Camagni.

Oppure ancora sfugge a molti che le case sono state costruite eccome. Ad esempio enormi operazioni immobiliari, come Santa Giulia e l’ex-Fiera a Milano, hanno prodotto appartamenti su appartamenti ma non certo per chi ne ha davvero bisogno bensì per chi può pagare prezzi salatissimi per pochi metri quadrati. Come mai di questo non ci s’indigna e non curanti si va all’attacco di prati e campi, che silenti non possono difendersi?

Il prossimo anno cade il cinquantesimo del film di Rosi, Mani sulla città. Un capolavoro che smascherò la debolezza di un’urbanistica corrotta e dissipatrice che già allora si industriava a sostenere ad arte il bisogno di case migliori per alimentare speculazioni ovviamente ai danni degli spazi aperti. La tesi di quel film non è stata smontata. Anzi. Forse quel film bisogna rivederlo insieme con quelli più recenti (Il suolo minacciato, 40 passi, Dirt, etc.). Se invece si preferisce la lettura, ci sono i libri di Emiliani, Borgese, Cederna, Conti, Peccei, Settis, Zanzotto, Erbani, Cianciullo, Scaramellini, Tempesta (e anche di qualche urbanista!) a raccontarci l’attacco al paesaggio attraverso il consumo di suolo. E anche loro non sono contro la casa e il lavoro.

Com’è possibile, allora, sorvolare sul fatto che il consumo di suolo che abbiamo sotto gli occhi non arrivi da una risposta al bisogno di casa o di lavoro, ma da modelli di consumo assurdi, da un’idea di città basata stoltamente sull’auto, da pressioni dei mercati finanziari, dal continuo svilimento del pensiero ambientale lasciando pieno campo a quello economico (nella sua versione accumulatrice/consumista), dall’irresponsabilità di una certa amministrazione locale che dal difendere il bene comune suolo si è trovata a giocare il ruolo di aggressore per guadagnare per sé gli oneri di urbanizzazione, dalla corruzione intellettuale ancor prima che materiale della politica locale, da molti architetti urbanisti e ingegneri che hanno avvallato acriticamente certe domande di trasformazione incantati dall’idea che la crescita andava assecondata a prescindere (già Benevolo s’indignò anni or sono), dalla perdita di ogni intelligenza di prendersi cura della terra perché è un bene prezioso per quel che produce e non per quel che rende come merce.

Non riconoscere che dobbiamo cambiare, ferisce non me ma il Paese e inganna i suoi abitanti. Taglia le gambe a quella politica che inizia a occuparsi di questi fatti ponendosi l’obiettivo di limitare i consumi senza deprimere la qualità della vita.

Ma c’è ancora una questione irrinunciabile che invece deve stare nella testa di chi si occupa di città. Terra uguale cibo. Lo so che l’urbanista non si è quasi mai preoccupato della produzione del cibo. Eppure il cibo si produce attraverso la terra, il suolo. Non con il cemento. Persino i maiali capannonizzati di Romano mangiano cibo proveniente dal suolo. In Lombardia negli ultimi dieci anni il cemento ha ridotto del 10% la auto sostenibilità alimentare. Ogni giorno 12 ettari sono stati lastricati. Sono dati, non sono opinioni (vd. rapporto CRCS). E con questi dati cosa accade? Accade che il cibo viene cercato più lontano, nelle terre degli altri, magari in Africa o in Madagascar, sottraendolo ai legittimi pretendenti per riempire i nostri frigoriferi. Mi chiedo: è libertà quella? Non è che la libertà di consumare suolo agricolo dei cittadini brianzoli o fiorentini o pugliesi che si picca di difendere il Romano corrisponde alla perdita di libertà e sovranità alimentare di cittadini tunisini, etiopi o sudanesi? L’idea di urbanistica e di uso del suolo che esce da quell’articolo, non mi pare sia quella di cui abbiamo bisogno oggi per stare nel futuro. Un futuro complicato e globalizzato. Peraltro se non ci si vuole convincere ascoltando me, almeno si dia retta agli atti della Commissione delle comunità europee del 2006 (COM 231 e 232) e del 2012 (COM 46), alle leggi sul contenimento del consumo di suolo volute in Germania, Olanda, Svizzera, Gran Bretagna, Austria e, finalmente anche in Italia, al disegno di legge appena presentato dal ministro Catania (e ripreso dallo stesso senatore Mario Monti) accompagnato da una relazione che è da sola un programma. “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione”.

Per concludere mi sono fatto l’idea che interventi come quello che ho letto, rischiano di stare in piedi più per quel gusto retorico, persino fine a se stesso, di opporsi a tutti i costi per trovare uno spazio mediatico in cui stare, con il probabile esito di indurre confusione e caduta d’interesse nel lettore. Invece il consumo di suolo è un problema serio: rivolgersi così alla politica che difende gli spazi aperti può essere interpretabile come un attacco poco sensato a chi mostra di avere a cuore un pezzo importante del futuro dei cittadini e la sicurezza alimentare del Paese. E non possiamo proprio permettercelo. Ben venga quindi l’idea del Referendum sul suolo lanciato da Civati. Ben vengano i politici che vogliono occuparsene. Certo, mi rendo conto che si tratta di temi nuovi per la politica, ma non per questo non importanti anche se non li trovavamo nelle agende di quei “socialisti” che abbiamo conosciuto in questo Paese e che, personalmente, non rimpiango: non mi hanno lasciato un paesaggio migliore né una cultura del paesaggio migliore. Solo meno suolo e più cemento. Solo più auto e meno bici.

 

Paolo Pileri *

 

*Docente di pianificazione territoriale e ambientale, Politecnico di Milano



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