3 ottobre 2012

PERCHÉ RENZI SARÀ IL PROSSIMO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO


Forse è ancora presto per dirlo, ma certo il crescere a vista d’occhio delle fila dei sostenitori di Matteo Renzi rispecchia qualcosa che va ben oltre l’appeal mediatico del sindaco di Firenze. Rispecchia le ansie di un paese al quale l’onda “moralizzatrice” seguita a Mani Pulite, la fine dei partiti della Prima Repubblica, l’avvento di nuove formazioni politiche e di un nuovo sistema elettorale avevano promesso venti anni fa un facile e indolore approdo a una normale democrazia dell’alternanza, per dargli in realtà una incessante guerra per bande, divise da rivalità – spesso interne ai due grandi schieramenti – tutte solidamente radicate in un’epoca che non è più, combattute per motivi che nessuno ricorda, come è tipico delle faide familiari che insanguinano certi remoti paesini dell’Aspromonte.

La crescita geometrica di adesioni alla campagna di Renzi poco ha a che vedere con il programma, che pure raccoglie molto di quanto la sparuta ed emarginata pattuglia riformista del PD ha elaborato in splendido isolamento in questi anni, o con la tanto citata rottamazione della vecchia guardia. Più di ogni altra cosa, Matteo Renzi vincerà le primarie e poi le elezioni politiche della prossima primavera perché incarna meglio di ogni altro il desiderio di cambiamento che scuote la società italiana, sedotta e abbandonata come una olgettina qualsiasi da Berlusconi, stanca della retorica vagamente e (ormai si può dirlo) vuotamente moralista del PD dei “vecchi”, troppo smaliziata per credere veramente al reality politico promessogli da Grillo.

E poco importa che, come ha giustamente sottolineato D’Alema con una delle poche osservazioni pertinenti uscitegli di bocca negli ultimi mesi, la strada scelta, che passa per le primarie del PD, sia inadeguata in assenza di certezza circa il contesto (leggasi legge elettorale e alleanze) in cui si svolgeranno le prossime politiche. Poco importa perché a nessuno sfugge come paradossalmente tutti questi elementi siano del tutto secondari in questo momento.

Un paese stremato da una irripetibile successione di shock negativi che si protraggono da oltre vent’anni (il berlusconismo, la speculare e strutturale inadeguatezza del PD e di tutto il centrosinistra a esprimere una vera cultura di governo, la straordinaria inefficacia del suo sistema politico-elettorale, cui solo da ultimo si è aggiunta la crisi economica) si appresta a utilizzare il più improbabile degli strumenti – qui ha davvero ragione D’Alema – per dire che vuole voltare pagina. O almeno – il che però per quanto riguarda i risultati concreti è la stessa cosa – questo è ciò che farà, con effetti sistemici, quella parte del paese che guarda al centrosinistra.

Certo è strano osservare queste dinamiche da Milano, che con la vittoria della coalizione riunitasi attorno a Pisapia per prima aveva dato uno scossone alla dialettica destra-sinistra prevalsa per venti anni, facendo per una breve stagione intendere che fosse possibile uscirne riaggregando le forze del centrosinistra così com’erano, ma la cronaca politica dell’ultimo anno ci dicono che la nostra è stata una fortunata eccezione.

E dunque ora che finalmente Mario Monti, dichiarandosi “disponibile” a un bis del suo governo, ha posto fine a un gioco delle parti che stava diventando stucchevole, è possibile guardare con maggiore chiarezza alle opzioni in campo. Mentre il centrodestra consuma la sua lenta agonia tra scandali a sfondo ora sessuale ora corruttivo, Casini continua la sua campagna per il Quirinale basata su un solido nulla, Grillo mostra tutto il suo spessore di sano, vecchio populismo qualunquista, la partita si riduce all’antico scontro tra una destra che tenta di riorganizzarsi dietro la faccia più rispettabile dei poteri forti e un centrosinistra chiamato a scegliere: liberarsi del proprio peccato originale, abbracciando convintamente e senza timori reverenziali una piattaforma riformista che non trascuri i suoi valori di fondo, o continuare in quella subalternità che sinora nel nostro Paese l’ha reso sostanzialmente “unfit to rule“, abilitato a brevi intervalli di governo solo grazie alla forza malferma di ingestibili ammucchiate.

Renzi lo ha capito prima e meglio di chiunque altro e adesso è il suo momento, per le mille ragioni viste sinora e anche perché agli italiani non sfugge che nella foresta pietrificata della politica nazionale ha scelto a 37 anni di mettersi in gioco, mentre di diritto, secondo regole non scritte ma da sempre rigorosamente osservate, gli spettava un secondo mandato da sindaco di Firenze, poi un ruolo di leader del centrosinistra e un incarico ministeriale nel primo governo utile, il tutto prima di compiere 50 anni.

Perché la politica, più di qualunque altra cosa, è questione di tempismo e coraggio, in ogni parte del mondo, e forse finalmente anche a casa nostra.

 

Diego Corrado



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