26 settembre 2012

MARCHIONNE, RENZI, I SE E I MA


In alcuni articoli pubblicati tempo fa su ArcipelagoMilano avevo presentato Sergio Marchionne come un manager tanto abile, quanto soprattutto spregiudicato: un abilissimo giocatore di poker, padrone del suo momento chiave: il bluff. A differenza che nel gioco, però, la vita tende a “vedere le carte”, non si può chiuderle, arraffare il banco, passare alla mano successiva, e ricominciare daccapo, no, proprio no, prima o poi le carte della mano precedente si vedono.

Così l’arrogante Marchionne del “non abbiamo bisogno dei soldi pubblici”, o addirittura del “non abbiamo mai avuto bisogno dei soldi pubblici” è divenuto, e sono passate solo poche stagioni, quello, un po’ vergognoso, dell'”andiamo bene dove i governi ci finanziano”. Così il Marchionne della Fabbrica Italia, millantata sul presupposto dello scardinamento del sistema di relazioni industriali, deve ammettere nei fatti che non della disciplina operaia si trattava per competere, ma del grado di sostegno assicurato dal pubblico, non dell’esigibilità delle prestazioni contrattuali ma della politica industriale.

Il bluff ora si vede, ma si vede proprio tutto. Quando il manager cosmopolita, esattamente apolide, dice che solo facendo come in Brasile, Polonia, Serbia o USA, solo con begli assegni pubblici in saccoccia, si produce e si guadagna, di nuovo bluffa, in realtà mente, e di nuovo, per la gola, cercando di nascondere in una notte dove tutti i gatti sono bigi gli effetti specifici e nefasti della sue strategie manageriali. In Germania e Francia si produce e guadagna eccome con l’auto, ma anche in quei paesi vige il divieto comunitario in materia di aiuti di stato, come in Italia.

Ma per Marchionne questa realtà non esiste, poiché farlo porterebbe ad ammettere che una grande struttura industriale non può funzionare solo con il meccanismo del mercato, ma richiede come sua premessa indispensabile le condizioni sociali, politiche, amministrative e sindacali che, tutte assieme, creano l’ambiente, le infrastrutture materiali e immateriali, favorevole alla grande produzione. In Germania, l’intrapresa privata si struttura e prospera nel quadro di un sistema di relazioni con le amministrazioni pubbliche e con le organizzazioni sindacali, altro che il “facciamo da soli”. E del resto, cosa sono i grandi agglomerati che fanno oggi automobili, e profitti, in Asia (Toyota, Hyundai…) se non sistemi complessi d’imprese strettamente intrecciati con il governo del pubblico?

Il gioco ora si fa teso, e anche un governo che vede nel libero mercato la chiave dello sviluppo, ammette, sotto la spinta degli eventi, che qualcuno dovrà pur rendere conto di qualcosa, e che non è accettabile il tramonto della più grande industria italiana. Soprattutto non è accettabile che questo sia l’effetto di un disegno, cinico la sua parte, che ha usato il patrimonio tecnologico di Fiat come risorsa per incassare il mega assegno di Obama, prendere piede in USA, via via dismettendo però l’insediamento produttivo in Italia. Ora appare chiaro che Fabbrica Italia era solo una falsa rappresentazione per prendere tempo, completare la transizione americana, e infine chiudere in Italia, insomma uno specchietto per le allodole.

Un Programma di investimenti mai presentato in dettaglio, un gioco di specchi che, mentre incassava ora e subito il guadagno (la riduzione drastica della condizione e rappresentanza operaia, la chiusura e il ridimensionamento produttivo di stabilimenti), procrastinava a un domani sempre reiterato il costo (gli investimenti). Un Programma Metafora di quello che “vorremmo poter fare se… ci lasciate fare”. “Lasciare vi abbiamo lasciato, ma cosa avete fatto?”, potrebbe dire ora uno dei sostenitori del “Patto di Pomigliano”. Un patto che ha spaccato le forze sindacali e politiche, sollecitando quelle che più decisamente intendono, o intendevano, inoltrarsi nel disegno di nuove relazioni industriali, Bonanni e Angeletti certo, ma anche pezzi del PD, legittimati da una figura di grande spessore, come Pietro Ichino.

“Con Marchionne, senza se e senza ma”, si spinse a dire Matteo Renzi, “Io sto dalla parte di Marchionne, dalla parte di chi sta investendo sul futuro delle aziende, quando tutte le aziende chiudono. È un momento in cui bisogna cercare di tenere aperte le fabbriche”, aggiungendo “… è la prima volta nella sua storia che la Fiat, anziché chiedere i soldi degli italiani con la cassa integrazione, prova a mettere dei quattrini per agganciare alla locomotiva americana Mirafiori e anche la struttura italiana”, concludendo “… spero che Bersani non chiacchieri di aria fritta ma dei problemi degli italiani.”. Son passati quasi due anni e quelle parole ora pesano, nel momento in cui Renzi si candida a guidare il futuro del Paese. Forse “qualche se e qualche ma” era d’obbligo.

Certo, aveva creduto alla buona fede del manipolatore automobilistico, ma in realtà più che credere, ha voluto credere, fortemente credere, a un racconto che ci parlava di un’impresa che chiedeva “solo” la libertà di operare sul mercato, delle auto e del lavoro, come se quel mercato potesse esistere davvero nei termini di un semplice svincolarsi dalle condizioni, e dagli obblighi, che “fanno” la grande produzione. Non c’è grande industria senza scambio, senza politica, senza il riconoscimento pattizio, che le auto si fanno con gli operai e non nonostante gli operai.

Oggi, Renzi scrive nel suo “non programma”: “Proponiamo la sperimentazione, in tutte le imprese disponibili, per i nuovi insediamenti e/o le nuove assunzioni, di un regime ispirato al modello scandinavo: tutti assunti a tempo indeter­minato (tranne i casi classici di contratto a termine), a tutti una protezione forte dei diritti fonda­mentali e in particolare contro le discriminazioni, nessuno inamovibile; a chi perde il posto per motivi economici od organizzativi un robusto sostegno del reddito e servizi di outplacement per la ricollocazione”.

Forse l’esperienza FIAT chiederebbe un passaggio più meditato, una riflessione più articolata sull’attuabilità di questi concetti in una condizione drammatica che vede Mirafiori e tante fabbriche attendere invano investimenti e politiche industriali: non vorremmo trovarci di nuovo con qualche rimpianto di troppo e meritate contestazioni da parte degli “inamovibili”. Insomma diciamolo ora “qualche se e qualche ma”, ora che serve.

 

Giuseppe Ucciero

 



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