26 settembre 2012

PROLEGOMENI A OGNI FUTURA DEFINIZIONE DI AREA METROPOLITANA/1


1) Lo dico per onor di firma, anche se so che non si potranno cambiare le cose: il termine di città-metropolitana è l’ennesimo fuorviante ossimoro prodotto dal burocratese. La forma metropolitana è un tipo d’insediamento nuovo e diverso da quello urbano o cittadino.

Come Norman Gras ha scritto una volta, “la grande città, la città eccezionale … si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica” (Gras, 1922, p. 181), ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico, non facilmente determinabile e senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la s’immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. “Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete un’idea della natura della città contemporanea”. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie.

Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello, ormai largamente noto, che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle “macchine per l’abitare”: in parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l’avvento di macchine “time and labour saving“, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne.

Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming“, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta, cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, s’intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra (Zwischenstadt, la “città nel mezzo”, che io chiamo la “città-oltre”) e li modifica, esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e vi si è sostituita dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica ma “scoppiettante di energia”.

Va da sé che questo scoppiettio è costoso, tra l’altro, proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica: se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è affatto una “più grande Milano”, ma una nuova struttura urbana in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.

2) Pertanto dire “città metropolitana” è analiticamente sbagliato e indica il fatto che chi ha elaborato questo termine non era al corrente della vasta letteratura che a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Il “mentecatto burocrate”, come lo chiama De Finetti, uccide l’elaborazione teorica, anche quella internazionalmente consolidata.
Possiamo naturalmente liberarci del problema con una scrollatina di spalle: al fondo si tratta solo di parole, basta intendersi. Ma le parole hanno un peso che va di là dalle nostre intenzioni, e nell’ArcipelagoMilano di settimana scorsa sollevavo proprio il problema dell’uso smodato delle parole con argomentazioni che non sto a riprender qui, ma che sono molto calzanti per questo tema. In particolare si dovrebbe stare particolarmente attenti per una procedura che anno dopo anno ha accumulato una quasi inaudita mole d’insuccessi (costosi). Alla radice degli insuccessi sta la profonda e colpevole ignoranza dimostrata dalla cultura pubblica italiana in un periodo cruciale delle trasformazioni insediative nel nostro paese.

Negli anni in cui la trasformazione metropolitana si mangiava il territorio di mezzo paese e le città venivano dissolte nelle “terre sconfinate” del periurbano, la cultura pubblica di questo paese si baloccava con l’idea balzana di un ritorno alla campagna. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (comunità) vs Gesellschaft (società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima.

3) Considerazioni anche più negative si dovrebbero fare per il termine “provincia metropolitana”.

Nel testo Dimensione metropolitana che ho curato per il CSS, Ettore Rotelli fa un illuminante racconto dei fallimenti della legislazione, ordinaria e costituzionale, sulle aree metropolitane, in un percorso abbastanza lungo che può essere a posteriori datato al Convegno di Limbiate del 1957. Il risultato di ulteriori inani agitazioni è che il fenomeno urbano più nuovo viene incasellato in uno schema amministrativo tanto vecchio da essere anche in via di eliminazione: non sapendo più che pesci pigliare facciamo coincidere la metropoli con la provincia. Mi è stato obiettato che le province possono essere rivedute; ma l’area metropolitana di Milano, che in tutte le elaborazioni dalla metà degli anni ’50 in poi (Kingsley Davis) ricomprende zone come il verbano-cusio-ossola e il novarese, secondo il criterio della provincia-metropoli continuano a far parte di una diversa regione. Che cale al “burocrate istituzionale” il fatto che persino per il dialetto queste aree siano entro la koiné milanese? Le regioni non si toccano e mai la provincia metropolitana ne potrà inglobare, delle porzioni, anche se il loro tubi di scappamento scaricano ogni giorno a Milano.

4) Oggi poi, dopo mezzo secolo d’insuccessi è inevitabile che persino l’oggetto che si vuole pianificare si sia ulteriormente modificato.

Parlare oggi di “area metropolitana” (città o provincia metropolitana) rimanda a un concetto, quello delle DUS (Daily Urban Systems) o FUR (Functional Urban Regions) che viene anch’esso messo in discussione dell’evoluzione, soprattutto dei sistemi di regolazione dei flussi. Non sono le città che fanno le reti, sono le reti che fanno le città, mentre i grandi insediamenti commerciali, che una volta erano alle periferie delle città oggi diventano poli di nuovi insediamenti urbani. L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che, in ogni parte del mondo, la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione” (i), che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni Urbane (MUR. Mega Urban Regions) in cui forme diverse d’insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costituire un’entità urbana nuova, ma non ancora ben definita, di cui sono state date numerose definizioni o etichettature che non sto a riprendere per non confondere inutilmente il discorso.

Per ragioni analitiche che accenno qui sotto, ho suggerito di chiamare questa nuova entità la meta-città (ii). Nel triplice senso che questa entità è andata al di là (meta) – e persino ben al di là – della classica morfologia fisica della “metropoli di prima generazione” che ha dominato il XX secolo con il suo core e suoi rings (polo e fasce concentriche); al di là (meta) del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza) generazione” sempre più dipendenti dalle popolazioni transeunti. (Vedi il mio “Lo que el viento se llevò. Espacios publicos en la metropolis de tercera generaciòn” in Monica Degen, Marisol Garcia (eds) La metaciudad: Barcelona, Transformaciòn de una metròpolis, Anthropos, Editorial, Barcelona 2008; pp. 29-44).

Questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un’apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città (iii). A parte la stridente contraddizione d’ipotesi sulla fine della città nel periodo di massima urbanizzazione della storia dell’umanità, è chiaro che la città non è finita, ma si è trasformata in una nuova forma urbana che oggi sempre più passa dal modello definito dalle varie Central Place Theories del XX secolo a modelli tendenzialmente lineari di Zwischenstadt. Il fenomeno può essere rappresentato con molti esempi ma è particolarmente evidente nel corridoio emiliano dove fino al 1999 si poteva ancora parlare di un arcipelago di aree metropolitane distinte, ma già nel 2001 si era trasformato in corridoio continuo, come è avvenuto in molte altre situazioni, rendendo ancora più problematico il lego della costruzione di una unità governabile (non di governo) partendo dai tasselli delle istituzioni esistenti. Che dire per esempio di un’area metropolitana milanese senza Monza, oppure di Firenze senza Prato? Si rafforza sempre più il dubbio che le componenti elementari del Lego istituzionale non siano più quelle giuste.

5) E ancora, dopo mezzo secolo di insuccessi, è perfettamente legittimo il sospetto che si stiano pestando nel mortaio degli oggetti sbagliati, per esempio pietre invece che mandorle, o aria fritta invece di concetti rigorosi, e che forse occorra ripensare radicalmente questo concetto.

In particolare io mi sono convinto di due fatti, che mi sembra difficile contestare, e che se accertati hanno conseguenze rilevanti sul piano operativo. Intendiamoci bene, io non sono un planner né un esperto di questioni istituzionali e amministrative, non faccio parte di alcuna commissione incaricata di disegnare questa o quell’area metropolitana. Da tempo però mi occupo del fenomeno metropolitano partendo dallo studio del nuovo fenomeno insediativo, della comprensione delle dinamiche sociali (lato sensu) che lo caratterizzano e delle sue tendenze evolutive. Avendo decisamente affermato ormai più di un quarto di secolo addietro che l’identificazione di una “area naturale” (spiegherò più sotto come si debba intendersi questo antico termine) come il nuovo insediamento con un bacino elettorale non avrebbe portato a nulla, penso oggi che le ragioni teoriche su cui si basava questa esatta previsione ne escono rafforzate e possono aver la pretesa di suggerire qualche riflessione a chi invece il compito di disegnare un modello di governo per le nuove forme insediative ce l’ha.(segue)

Guido Martinotti

(i) Per questa terminologia vedi il mio Metropoli, Il Mulino, Bologna 1993, Cap.III, passim.

(ii) Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da F. Ascher cui devo tuttavia riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita. Ringrazio Jean Paul Hubert del DRAST per la segnalazione. Una buona approssimazione del concetto che userò qui è il termine di Zwischenstadt la città tra le città (vedi Thomas Sieverts, Cities Without Cities. An Interpretation of the Zwischenstadt, Routledge, London, 2003 (Vieweg, 1997). La commissione europea ha ricostruito questa città tra le città calcolando le aree del pianeta che si trovano in prossimità di centri urbani.
(iii) Per una rassegna delle teorie della de-urbanizzazione vedi il mio già citato Metropoli (1993), Cap.II. Più di recente il tema è stato ripreso anche da un autore solitamente bene informato ed equilibrato come Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma 2011.



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