18 settembre 2012

PAROLE PAROLE PAROLE… DI UN ATTENTO OSSERVATORE


Avevo cominciato a scrivere un commento al documento di Stefano Rolando sul “brand” di Milano, ma poi Piero Bassetti involontariamente mi ha fatto, cambiare idea spingendomi a una riflessione che si adatta molto bene a una ripresa dopo la pausa. Spero di essere perdonato dagli interessati, a cominciare dal direttore, che mi aveva chiesto il commento: tanto ho l’impressione che di “brand” si continuerà a parlare per un pezzo e ci sarà tutto il tempo per ritornare anche sul documento di Rolando. Per capire cosa mi ha fatto cambiare idea devo scegliere una chiave minimalista e rivelare che Eva, mia moglie, mi accusa di essere diventato un vecchio ispido e incazzoso. Mi consolo pensando a John Wayne di True Grit, e tendo ad archiviare queste attribuzioni nel frigo del lessico famigliare, ma l’altra sera, all’inaugurazione di MITO, Piero Bassetti mi ha detto che segue i miei interventi su ArcipelagoMilano e che ci legge uno sfogo. “Come, sfogo – dico io – mi sembrava di fare dei ragionamenti” “Sì, certo, ma in fondo c’è sempre uno sfogo”. L’osservazione mi ha ovviamente colpito penetrando all’interno delle mie difese personali. Ho una grandissima stima per le intuizioni di Piero Bassetti e non ci sono neppure alla lontana motivi per non ritenerlo sincero: mi sono quindi arrovellato per capire da dove venisse l’impressione che aveva avuto.

“Sfogo?”: si sfogano gli arrabbiati, qualcuno che ha una pressione interiore che a me non sembrava di avere, ma poi ho pensato che, da un certo punto di vista, sfogarsi significa oggi interpretare un diffuso Zeitgeist; la nostra è un’epoca in cui il risentimento e anche il rancore giocano un ruolo importante, a cominciare dai vaffa che volano alla minima incertezza a un incrocio, per finire con quelli santificati da Beppe Grillo. Qualche psicologo improvvisato da settimanale femminile (e oggi anche l’economista Diamond) ha tirato fuori che siamo depressi, ma, a parte la difficoltà reale di diagnosticare un malanno così sfuggente, l’apatia e la indifferenza che si osservano, sono piuttosto il frutto della mancanza di opzioni realistiche nel contesto, e questa mancanza produce una tensione che sarebbe errore gravissimo sottovalutare e scambiare per rassegnazione. Le farmacie sovrabbondano in ansiolitici e calmanti, non in stimolanti; attenzione! La straordinaria confusione deriva proprio dall’uso incauto delle parole: si è usata “depressione” per indicare metaforicamente uno stato prolungato di rallentamento dell’economia, una forma estrema di “recessione” (altro interessante termine), ma poi si trasferisce automaticamente questo termine a una sorta di vaga psicologia sociale. Ma la depressione dell’economia non coincide con la depressione degli animi, semmai con la loro esasperazione: il testo letterario più importante prodotto dalla Grande Depressione, e il romanzo simbolo di questo periodo, si chiama infatti Furore (John Steinbeck, The Grapes of Wrath, 1939) a dimostrare, una volta di più che i veri letterati sono più precisi dei finti letterati prodotti dallo psicologismo sociologico. E se pensate che gli operai dell’Alcoa siano depressi andrete incontro a cattive sorprese.

Tuttavia, anche se inevitabilmente partecipo di questo mood generale – però non prendo tranquillanti – non mi sembra(va) di avere particolari ragioni di risentimento da sfogare finché, riflettendo alle parole di Bassetti ho capito che invece una ragione di sfogo ce l’ho ed è l’uso smodato delle parole, di cui siamo tutti vittime. Rileggendo Calvino ho trovato poi finalmente l’esatta (in “Esattezza”, appunto) definizione del mio malessere. “Perché sento il bisogno di difendere dei valori (la precisione del linguaggio, ndr) che molti potrebbero considerare ovvi? Credo che la mia prima spinta venga da una ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo casuale, sbadato e ne provo un fastidio intollerabile” (Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2011 (1993), p. 60); Calvino spinge la sua onestà intellettuale a includere il suo stesso linguaggio nella condanna, e la sua esasperazione lo spinge a definire questa situazione una “peste del linguaggio”. Ecco la ragione della mia intolleranza e, avendo individuato l’oggetto, decido che forse vale la pena di dedicare un pezzo di ArcipelagoMilano al tema del linguaggio. Continuando in chiave minimalista: vado al più vicino Feltrinelli per comperare il Carlo Galli, Abbiccì della cronaca politica, appena uscito dal Mulino, sperando in ulteriori suggerimenti che però lì non trovo e allora ricorro al vecchio metodo di passare uno dopo l’altro i libri dello scaffale, e così faccio un piccolo bottino che passo con qualche commento al lettore eventualmente interessato: intanto arraffo Prima lezione di filologia (può certamente servire) del mio ex collega nel SUM, Alberto Varvaro (Bari Laterza 2012) e Lezioni americane di Calvino (quelle le ho già a casa, sul comodino, ma questa è comunque una edizione economica) Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma – Bari 2008 (1993) che finalmente avrò l’occasione di leggere e poi finalmente, bingo, un libro che avevo già sfogliato, ma che non riuscivo però a cavar fuori dal seniority moment della mia memoria, Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, BUR, Milano 2010.

Il libro di Galli mi ha abbastanza deluso, non solo perché non cita Carofiglio – è vero che il sottotitolo limita l’indagine alla “cronaca della politica” e quindi potrebbe essere scusato – ma anche perché il testo di Carofiglio è assai politico. Il lemmario di Galli mi sembra un poco casuale, non é chiaro il criterio con cui è stato costruito: alcuni termini sono scontati o vecchiotti. Come altri, Nimby è un termine alquanto obsoleto, c’è stata una evoluzione, che gira in italia almeno dal 2007, in BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything (o Anyone) e non è solo uno scherzo, ma un problema reale, soprattutto perché si continua a costruire di tutto e dovunque. Ma ci sono buchi più seri, nella voce Palazzo (e in tutto il libro) manca un riferimento a Guicciardini, che è l’inventore della diade “la Piazza/il Palazzo”. Anni fa mi ero incaponito che venisse da Machiavelli e ho speso ore vane alla ricerca, finché Stefano Rodotà mi ha casualmente illuminato: ma io sono un dilettante e il mio era un peccato veniale, mentre Galli è ordinario della materia e si meriterebbe un bel doppio blu per questa mancanza che, peraltro, a mio avviso, esemplifica bene quello che mi sembra un disinteresse (colpevole) della cultura italiana contemporanea per Guicciardini. Invece ho trovato di grande aiuto il lavoro di Carofiglio che, sia nell’apparato di note che nella scelta dei termini, ma soprattutto nella impostazione, mi pare il migliore della serie. Carofiglio parte dal concetto di “manomissione delle parole” che mi sembra utilissimo in entrambe le accezioni di cui dirò. Carofiglio parla di manomissione delle parole in un senso positivo come di smontaggio e ri-montaggio di parole che per uso e abuso hanno perso il loro senso: forse qui sarebbe stato meglio usare il termine di “Manutenzione” lasciando quello di “Manomissione” al secondo senso, che è quello più ovvio di distorsione cui è dedicata la più gran parte del lavoro.

Da giurista, l’autore è in grado di spiegarci bene le manomissioni fatte dai legulei: già al primo anno di università (un qualche cinquanta anni addietro) c’erano i futuri professorini del diritto che sedevano in prima fila con una loro lingua native e me ne ricordo uno che non diceva “il macchinista frenò”, ma “il conduttore mise in opera gli opportuni sistemi di frenaggio”: chissà come saranno poi state scritte le sue sentenze o le sue comparse. Un comune amico, mi pare fosse Bruno Manghi, sosteneva di aver contato, negli scritti giuridici di un nostro collega successivamente pluriministeriale, che non voglio nominare, ben diciassette contronegazioni (del tipo “non si può non ammettere che”) concatenate in un solo periodo. Ma del linguaggio curiale siamo tutti edotti dal Manzoni in qui: Carofiglio ci dimostra anche come si possa barare con i termini di “sentenza di dichiarazione di prescrizione” e “sentenza di assoluzione”, documentando, su casi concreti di grande rilevanza per la vita di tutti noi, come una sentenza di “proscioglimento” per prescrizione possa contenere una conferma del reato compiuto e come, giocando sulla confusione, i media, a partire ahimè dal potente TG1, abbiano indotto il pubblico italiano a credere che un mariuolo provato tale fosse innocente. Ma anche questo trucco è famigliare, forse il danno più grave viene da una peste più subdola: la commistione tra linguaggio tecnico e linguaggio giuridico che Natalino Irti ha illustrato in un intervento spettacoloso ai Lincei qualche anno fa.

Accade che il legislatore per la complessità di molte materie, si appoggi, come del resto fa il magistrato nei processi, a tecnici specialisti di una data materia, i quali parlano un loro linguaggio esoterico con termini non particolarmente rispettosi dei generi letterari canonici. Questi termini entrano nel linguaggio politico e vengono facilmente assorbiti dai gerghi mediatici che li frullano in quel pidgin politico-giornalistico in cui i venditori di parole si vantano, spesso a vanvera, con termini come esodati ed esondati, gli extracomunitari e l’idratazione, per non parlare delle migliaia di sigle che marchiano le COLF (mai i COLF naturalmente), l’email la TAV e inevitabilmente la NOTAV e via frullando. È lo stesso linguaggio bacato e ingannevole che viene usato dai venditori di ricerche (quelli che W.G. Runciman chiama attitude peddlers, che sono anche sovente platitude peddlers) i quali devono sviluppare un linguaggio che sia sufficientemente astruso perché l’acquirente (il più delle volte un funzionario che a sua volta deve convincere qualcuno che tiene i cordoni della borsa) sia attratto, ma non troppo profondo da farlo intimorire, ma soprattutto non deve spaventarlo con un linguaggio critico o troppo trasparente. Perciò prevale una lingua ipocrita e opaca che poi è la lingua del potere.

Ecco, dunque, il mio nuovo sfogo chiarisce le ragioni di tutti i miei sfoghi precedenti e futuri: ce l’ho con la manomissione delle parole, le parole manomesse mi irritano, e più ancora mi irritano coloro che le manomettono per fini mercantili. Ma più di tutti mi irritano coloro che manomettono le parole senza rendersene conto, a volte persino pensando di apparire colti e raffinati, ma sempre per scopi mercantili. Non mi illudo che si possa tornare, se mai ci siamo passati, a un uso più sobrio delle parole, che era il programma di Calvino: temo che l’ubriacatura si sia trasformata in etilismo cronico, ma sono convinto che tutti, ma soprattutto coloro che per mestiere usano le parole consapevolmente, abbiano un obbligo morale di contrastare questa manomissione e la peste che ci affligge. Ecco perché, caro Piero, continuerò a sfogarmi tutte le volte che mi troverò davanti a qualche manomissione: mi piacerebbe che tra le tante novità che l’era Pisapia si propone di introdurre, ci sia anche un linguaggio più sobrio. Mi pare che lo stile del nuovo sindaco dia parecchie indicazioni in questa direzione; seguiamole. Se dovessi esprimere un desiderio per l’immagine di Milano, e così avviare il discorso per un prossimo commento, mi piacerebbe che tornasse a richiamare quella musicale della ottava traccia dell’album Django del Modern Jazz Quartet del 1954, che rendeva appunto omaggio alla nostra città e a un modo sobrio ed efficace di essere e operare. Quell’immagine veniva proiettata all’esterno da un fare ambrosiano, uno stile riconoscibile che non aveva bisogno, per imporsi, di alcun specialista di city-marketing.

PS Avevo già chiuso il pezzo quando ho ascoltato da Lerner Beppino Englaro che si sfogava con Quagliariello, proprio accusandolo di aver contribuito alla “peste del linguaggio” (testuale e ripetuta due volte) nel suo famigerato intervento al Senato in cui dava dell’assassino non solo agli Englaro, ma anche alla Cassazione che aveva dato ragione alla loro civile e ammirevole tenacia legalitaria. Mi sono sentito molto riconfortato.

 

Guido Martinotti

 

*Parole Parole Parole Leo Chiosso e Giancarlo Del Re, Gianni Ferrio; edizioni musicali Curci, Mina 13 Aprile 1972

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali




Ultimi commenti