5 settembre 2012

CL E IL “NOSTRO” BENE COMUNE


Pier Vito Antoniazzi apprezza il passo autocritico di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ma lamenta il blocco della discussione pubblica sulla condizione attuale di CL, proprio nel momento in cui il suo principale uomo di riferimento politico, Roberto Formigoni, è stato ruvidamente richiamato da Carron stesso a una maggiore sequela rispetto a Don Giussani. Il vaso di Pandora ciellino è stato scoperchiato, ma frettolosamente risigillato. È molto probabile che si svolgano all’interno dell’universo ciellino delle discussioni molto serrate e sanguigne, ma il tutto appare secretato. La politica, che è per definizione pubblica, viene così privatizzata. In realtà, il rapporto di CL con la politica è vario e stratificato, corrispondentemente all’articolazione interna di CL in movimento ecclesiale – formalmente riconosciuto come Fraternità, indipendente dall’organizzazione ecclesiastico – amministrativa delle diocesi vero e proprio – in movimento socio – culturale e in movimento politico.

Nell’interpretazione di CL ecclesiale del rapporto tra fede e politica, la politica è uno strumento per la difesa della presenza cristiana nel mondo, non è una sfera ontologicamente originaria dell’agire umano individuale. Perciò non esiste primariamente la res publica, bensì la res christiana, di cui quella publica è ancella. Siamo alla teoria del Sole-Chiesa e della Luna-Impero di papa Gelasio (+496), esposta nella Lettera all’imperatore bizantino Anastasio. Il rapporto primario è quello tra il credente e Dio, tramite Gesù Cristo. Perciò non esiste nella cultura ciellina il concetto di “etica pubblica”, alla quale peraltro vengono imputate tendenze riduzioniste e totalitarie. Il discorso di Ratzinger al Bundestag il 22 settembre 2011, che parla esplicitamente di etica pubblica, non è ancora stato recepito.

Questa concezione della politica è praticata spregiudicatamente dall’ala “politica”, dall’ala sociale e dall’ala culturale del Movimento, che si vivono “qual falange di Cristo redentore”. Naturalmente si parla di Bene comune, che coincide, si intende, con il bene di CL e, per proiezione eccessiva, con quello della Chiesa. Ma che il contenuto del Bene comune possa essere la risultante possibilmente condivisa di un conflitto plurale tra varie ipotesi di Bene comune è un’idea imputata di relativismo. La prima conseguenza di quella visione ancillare della politica è il disinteresse reale per le questioni pubbliche.

Nel “militante” ciellino di base la retorica della presenza, realizzata attraverso le Opere, convive schizofrenicamente con una riduzione intimistica della fede al rapporto personale con Cristo, con un disinteresse di fondo rispetto al destino della sfera pubblica e con la delega totale all’ala politica del Movimento. I volantini diffusi alla vigilia delle elezioni politiche o amministrative parlano chiaro. L’ordine di voto parte dall’alto, fluisce per i canali interni, con “santini” di preferenze al seguito, raggiunge la base, che si allinea senza discussione esplicita e pubblica. Il Movimento ecclesiale, a onta delle affermazioni contrarie, segnala ai ciellini i propri uomini e li fa votare. Esattamente come fanno i partiti e le lobbies. L’impressione netta è che la saldatura del movimento ecclesiale con la sua ala politica sia netta: non solo Formigoni, democristiano andreottiano, ma l’intera CL è coinvolta in questa visione e in questo metodo. Suona, pertanto, opportunistica e persino ingenerosa la separazione dei destini di CL da quelli di Formigoni e dagli “amici” politici di CL.

Ma, giunti a questo punto, insorge inevitabile qualche domanda: questa deriva è solo ciellina? I cattolici italiani, tramontati i fasti del cattolicesimo liberale di Sturzo e De Gasperi nei primi anni ’50, non hanno forse praticato lo stesso modello di rapporti tra fede e politica, approdato, alla fine, all’asservimento della politica e del Bene comune agli interessi privati? Le correnti Dc che hanno attraversato il cielo della politica italiana non hanno forse, tutte quante, praticato la sottomissione dello Stato alle clientele? Il deficit di etica pubblica, in forza del quale solo il 55% dei contribuenti paga le tasse, non è, in primo luogo, un deficit del cattolicesimo politico italiano, che ha tenuto la scena politica e il potere per cinquant’anni?

Discorso che si farebbe lungo, perché richiederebbe una discussione storica del rapporto tra cattolicesimo e Stato, almeno a partire dall’Ottocento. Non è certo una domanda nuova o peregrina quella che chiede perché il luteranesimo – nato come religione nazionale – statale, nelle sue principali espressioni, di cui il calvinismo è stata la più significativa – alla fine abbia generato un’etica pubblica, mentre il cattolicesimo ha sottoprodotto un’etica privata del peccare facile e dell’assoluzione facilissima.

Resta, intanto, la tenaglia di due fatti, in cui sono stretti i cattolici italiani, non solo CL: l’Italia è un Paese senza la spina dorsale dell’etica pubblica, è un groviglio inestricabile di corporazioni, senza Bene comune; il Cristianesimo è ormai esposto anche in Italia a un violento processo di “esculturazione” – che sta mettendo a rischio i fondamenti della civilizzazione europea – mentre si diffonde un “sacro selvaggio” di religioni à la carte. Quale possa essere il contributo dei credenti alla costruzione dell’etica pubblica assente dell’Italia è più che mai questione aperta. Ma incomincia ad affiorare il dubbio che forse nella scatola degli attrezzi dei cattolici italiani ne manchi qualcuno.

 

Giovanni Cominelli

 



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