5 settembre 2012

musica


LA CARMEN IN FORMA DI CONCERTO

 

Con un esperimento difficile e coraggioso l’Auditorium ha concluso la scorsa settimana la sua prima stagione estiva. Una stagione anch’essa molto rischiosa, nella Milano usualmente deserta di agosto, premiata dal fedele pubblico dell’Orchestra Verdi e un po’ anche dal turismo straniero che ha dato un buon contributo a riempire la sala trovandovi – oltre alla buona musica – un prezioso refrigerio al terribile caldo delle ultime settimane.

Esperimento coraggioso, dicevamo, perché ha affrontato – con mezzi necessariamente limitati – una delle opere più note e amate dal pubblico e anche perché dare un’opera in forma di concerto, con i cantanti schierati sul palcoscenico senza costumi e senza scena, vuol dire denudarla, scarnificarla, rivolgersi a un pubblico maturo o almeno molto attento e curioso; difficile perché se c’è un’opera che pretende di essere “incarnata” nei suoi personaggi, di sedurre il pubblico anche con la recitazione, questa è proprio Carmen con le sue atmosfere cariche di sensualità e i suggestivi ambienti di Siviglia e dei Pirenei.

Ciò premesso abbiamo assistito a un bello spettacolo e soprattutto a una magnifica prestazione di Tiziana Fabbricini, soprano famosa per le innumerevoli interpretazioni nella Traviata verdiana (fin dal 1990, con Muti, quando nei panni di Violetta debuttò trionfalmente alla Scala) che si è cimentata nell’opera di Bizet – salvo errore per la prima volta – in una parte dunque da mezzo-soprano; non solo è stata vocalmente bravissima per non dire perfetta, una grande professionista, ma ha anche “recitato” la parte (e si è capito quanto fosse imbarazzata, all’inizio, nella sensualissima Habanera e come si è sciolta subito dopo, tanto che nella Séguedille era già un’attrice a proprio agio).

Fa piacere vedere come Jader Bignamini, che in giugno aveva realizzato molto bene l’Andrea Chénier di Giordano nella stessa forma “di concerto”, si sia confermato un ottimo e completo direttore d’orchestra; vorremmo rimproverargli un’ouverture eccessivamente veloce, come purtroppo oggi è d’uso, ma si è fatto presto perdonare per l’intensità con cui ha eseguito le altre pagine dell’opera e in particolare per la grazia con cui ha accompagnato i cantanti. Fra questi Alberto Gazale è stato molto convincente nella parte di Escamillo, un po’ meno – nonostante la magnifica voce – la giovanissima Aurora Tirotta in quella di Micaela.

Più difficile è il discorso sulla voce tenorile di Don Josè. Sappiamo quanto siano rari oggi i tenori potenti ed eleganti insieme, soprattutto le voci duttili, capaci di adattarsi a personaggi e caratteri molto diversi fra loro. In Carmen il problema del tenore è quello di essere letteralmente schiacciato da una parte dalla potenza dell’avversario-torero-baritono, dall’altra dalla forza delle due donne da cui è parimenti dominato: l’amante, carica di femminile e sconvolgente aggressività, e Micaela dolce ma ferma portatrice del ricatto affettivo familiare. Se Don Josè ha una voce con poco volume, morbida e sottile come quella di Marco Frusoni, non potrà mai mettersi in competizione con gli altri protagonisti dell’opera. Perderà, come è noto, la testa e sé stesso, ma così perde in partenza e non c’è più storia.

Vorrei aggiungere alcune considerazioni, innanzitutto sul problema della pronuncia delle parole e della chiarezza della dizione da parte dei cantanti. È un argomento su cui molto è stato detto e scritto e per fortuna negli ultimi tempi sono stati fatti anche molti passi avanti. Ma nel caso di Carmen, a maggior ragione perché al pari dell’inglese e dello spagnolo il francese è una lingua poco adatta all’opera lirica (che infatti produce il meglio di sé in italiano e in tedesco, si pensi solo a Verdi e a Wagner), il problema della pronuncia è cruciale. In questa occasione è stato veramente imbarazzante ascoltare un francese tanto approssimativo da parte di alcuni cantanti; ti fanno perdere il piacere dell’ascolto.

Poi c’è il problema del pubblico dell’Auditorium che come si è detto è fedele e affezionato, un pubblico molto caldo e oserei dire affettuoso nei confronti della “sua” orchestra, che esprime sempre passione ed entusiasmo. Ma spesso esagera assumendo toni da stadio, esprimendosi con urli selvaggi che fanno pensare più al fiancheggiamento da tifo sportivo che non al consenso maturo e riflessivo; e non si può a ogni concerto, qualunque ne sia la riuscita, battere ritmicamente i piedi sul pavimento. Nel caso dell’opera lirica in concerto la cosa assume particolare rilevanza perché – trattandosi di “pagine scelte” – gli applausi scrosciano dopo ogni “pagina” e diventano decisamente molesti. Manifestazioni più sobrie e composte, e segnali di approvazione più graduati, gioverebbero sia al teatro – che ne guadagnerebbe in autorevolezza – sia agli artisti, ai quali fa sicuramente piacere sentirsi amati, ma certamente preferirebbero avere un consenso consapevole e reale.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



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