25 luglio 2012

IL PD LOMBARDO E L’AUTOSTIMA


La salute del PD in Lombardia elettoralmente parlando è ottima. La conquista di Milano un anno fa, di Como e Monza quest’anno, la riconferma di Sesto accompagnati allo squagliamento del PDL, alla crisi della Lega, al declino di Formigoni, alla modestia di competitor al centro e a sinistra consentono di dire che mai il presente è stato cosi roseo. Se domani si dovesse votare per le regionali la possibilità di archiviare il dominio formigoniano sembrerebbe cosa fatta. Con una legge elettorale con sbarramenti e premi di maggioranza il PD eleggerebbe più deputati e senatori di quanti calciatori ha comprato Moratti per l’Inter.

Eppure. Eppure il PD sembra timoroso, incerto, crepuscolare. Perché? Troppe questioni aperte.

1) “tra Grecia e Francia diciamo Francia” frase a effetto ma che non significa niente. In Francia i socialisti hanno fatto una scelta di vocazione maggioritaria tant’è che sia il Front de Gauche sia il Modem sono pressoché scomparsi dal parlamento. Scelta che il PD fece alle ultime elezioni regionali chiudendo a sinistra e non fu un successone. Problema che si ripropone: con chi allearsi a sinistra? e/o a destra? Il sistema elettorale regionale, presidenziale a un turno consentirebbe di dire con nessuno, ma ci vuole molto coraggio per non dire incoscienza. La quasi certezza della vittoria ci sarebbe con un bello schieramento di sinistra ma è incompatibile con il montismo imperante e con l’unica decisione (forse) certa: nessuna alleanza con Grillo o come dice Letta “meglio un voto al PDL che ai grillini” (tesi curiosa). Mentre l’alleanza con l’Udc sarebbe un riconoscere l’egemonia moderata, visto che tra Fioroni, Casini e Tabacci le differenze sono infinitesimali. E allora? E allora il PD tace, rinviando tutto a domani, verso palingenetiche primarie con il rischio del papa straniero. Ma come diceva il poeta: “questo domani quando arriva?… vivere oggi è già tardi”.

2) La fusione a freddo tra DS e Margherita si dice non ha funzionato, tant’è che il cofondatore Rutelli agonizza ai margini della politica e i DS sono ancora egemoni. Ma non è vero! al contrario è riuscita eccome. Se si guarda agli eletti il portato dei DS appare molto ma molto meno rilevante di quanto si crede, i margheritini hanno nelle istituzioni un peso complessivo maggiore semmai hanno lasciato le cariche di partito (per quel che servono…). Quella che non funziona è la logica organizzativa basata ancora su sezioni e tessere, incarichi di lavoro e attivi di settore nel più puro stile Alberganti, quando poi tutto si delibera in primarie. Con una classe dirigente giovane (Martina è del 78, Civati del 75) che andava all’asilo quando Formigoni si candidò per la prima volta e con molti dei 42.000 iscritti sono nativi PD ci si aspettava una maggiore audacia organizzativa, se invece che pensare al partito che fu, pensassero a un’organizzazione per l’oggi sarebbe meglio.

3) Il gruppo dirigente del PD soffre la sindrome Pisapia. Cos’è? È l’avere il 28,6% dei voti, cioè la percentuale più alta che un partito del centro sinistra e sinistra ha avuto negli ultimi trenta anni a Milano, e non contare una sverza; è indicare un vicesindaco di cui i più non ricordano nemmeno il nome; è farsi imporre l’agenda da Bruno Tabacci, Franco D’Alfonso, Davide Corritore, Felice Sciossciammocca etc. Considerato che probabilmente Pisapia sarà il sindaco dell’area metropolitana la sindrome ormai esce dai confini daziari. Tuttavia poiché a un anno di distanza la mitica ondata arancione non pare proprio essersi stabilizzata e anzi come le ondate ogni tanto si ritrae, vuoi perché ormai di sindaci eterodossi è piena l’Italia vuoi perché governare è sempre più difficile che progettare, il PD può scegliere: o coopta gli arancioni in un rassemblement o si fa cooptare nell’arancionismo e incorona Pisapia come stratega delle coalizioni future o va a un chiarimento e alle prossime elezioni ognuno per la sua strada. Invece che fa? Rinvia tutto a domani

4) L’identità del partito è incerta. Per fortuna aggiungerei. I Partiti democratici, socialisti, socialdemocratici, di successo hanno sempre avuto fortissime contrapposizioni interne, correnti di ogni tipo, congressi all’ultimo sangue, differenze insanabili, maggioranze e minoranze, etc. Il problema del PD è non prenderne atto. Se su alcuni temi non è possibile raggiungere un consenso meglio dichiarare il liberi tutti. La liturgia del centralismo democratico è antiquariato. Su temi come le coppie di fatto meglio arrivare divisi che rinviare sine die. L’antico retaggio cattocomunista del valore assoluto dell’unità è ancora troppo forte, anche oggi quando di comunisti nel PD probabilmente non ce n’è più neanche uno.

5) Il rapporto con il sindacato è forse l’indicatore più chiaro della confusione. Per una parte dei democratici la CGIL è uno strumento di conservatorismo che tutela i garantiti e fa demagogia, per un’altra CISL e UIL sono corporativi sindacati degli statali, per altri ancora il sindacato è l’unico freno alla deriva liberista mercatista, l’attacco di Monti alla concertazione è quasi un golpe e la Camusso una eroina alla Luise Michel. Speculare è il giudizio sul montismo. C’è in una parte del PD sottotraccia la convinzione che “non lo fo per piacer mio ma per piacer a dio”, in altri la serena convinzione che il governo fa quello che dovrebbe fare il PD ed è auspicabile che continui a farlo per molti anni ancora. Il PD non può affrontare le prossime elezioni regionali e nazionali in Lombardia senza aver chiarito questi minuscoli dettagli. Invece che fa? Rinvia tutto a domani.

6) Alcuni conti con il passato sono ancora sospesi. Si tende a rimuovere. La vicenda Penati è indicativa. Tralasciando le vicende giudiziarie che probabilmente finiranno in nulla, la questione è se il modello penatiano, fatto di proposte politico/culturali che tallonavano la destra e la lega sul loro terreno (ricordate quando diceva “si a Milano ci sono troppi immigrati ma la colpa è del centro destra”), di scelte elettorali moderate(la lista civica con il proprio nome, la chiusura a sinistra alle regionali), di scelte urbanistico amministrative contrattate, di privatizzazioni, di marketing delle aree industriali, di decisionismo interventista, di selezione del gruppo dirigente per cooptazione, va cancellato o bisogna solo “cambiarne lo stile”? L’esperienza politico amministrativa del PD milanese degli ultimi anni nel bene e nel male, successi e insuccessi è in gran parte Penati, quindi nel caso si dica che il modello è sbagliato, il problema non è Penati ormai in pensione, ma buona parte del vecchio gruppo dirigente tuttora in servizio permanente effettivo.

La domanda allora è: ha il PD una leadership adeguata alla bisogna?

Diceva uno che se ne intendeva: “Un leader ha due importanti caratteristiche: la prima che va in una certa direzione; la seconda che è capace di persuadere gli altri ad andare con lui”; nel PD lombardo c’è troppa prudenza, un malcelato complesso di inferiorità: l’ultimo pirlacchione che si autonomina società civile è visto come un geniale teorico, un potenziale presidente della regione o un geniale rifondatore. Vabbè che è un partito giovane ma c’è poca autostima. Eppure basterebbe poco:

1) Definire le condizioni irrinunciabili per le alleanze.

2) Rivendicare il candidato alla guida della regione.

3) Proporre un nome e cognome.

La salute elettorale del PD in Lombardia oggi è ottima, ma domani?

 

Walter Marossi

 



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